C’è da augurarsi che la presenza e il volto di Valentina Carnelutti possano fungere da traino per un film come L’uomo senza colpa, dal 22 giugno distribuito al cinema da Arch Film in collaborazione con Athena cinematografica. Nell’opera prima di Ivan Gergolet, già vincitore del premio Ettore Scola del Pubblico del Bifest (e passato per i festival di Pechino, Sofia e Tallin), è lei la protagonista di una storia tagliente, fatta di silenzi e vuoti da riempire, nella quale la vediamo affiancata dagli ottimi Branko Zavrsan e Enrico Inserra.
Amianto e morti sul lavoro: un dramma personale, di tutti
Ed è lei la Angela che, a Monfalcone, vive sola dalla morte del marito, morto di un cancro ai polmoni causato dalla polvere di amianto respirata in fabbrica. Addetta alle pulizie, un giorno scopre che nell’ospedale in cui presta servizio è stato ricoverato Francesco Gorian, l’ex datore di lavoro del marito ormai costretto a letto da un ictus e bisognoso di assistenza.
E’ lo stesso figlio dell’uomo a chiederle di aiutarlo a gestire la situazione e le offre un lavoro fisso come badante nella villa fuori dalla città. Una occasione per Angela di consumare la sua vendetta e punire Gorian, che però – per indole ed etica – non riesce a non accudire. Incapace di fargli del male, la donna decide per un piano alternativo, nel quale rischia di perdere la sua migliore amica, sua figlia, la sua dignità.
Una storia vera, un tormento senza fine
100.000 morti all’anno e 125 milioni in totale, sono le vittime del cosiddetto ‘dramma dell’amianto’ e di una specifica contaminazione che – nonostante sia stato bandito nel 1992, come sottolinea lo stesso regista – “sta facendo una strage“, anche nell’area del nord-est italiano al confine con la Slovenia dove il film è ambientato, anche nella sua propria famiglia, dove suo padre,”che da giovane ha lavorato in un importante cantiere navale, ha respirato le polveri ed è a rischio, come tutta quella generazione di lavoratori“. Una denuncia, e insieme un tentativo di dare voce alla richiesta di giustizia delle tante famiglie colpite, che nasce 15 anni fa, dopo il cortometraggio Polvere. E che dalla polvere riparte, come si vede nell’allegorico e surreale prologo di una vicenda fin troppo radicata nella verità di fatti accaduti.
L’ambientazione ospedaliera prima e casalinga poi ricordano quelle di tanti thriller horror, genere con il quale – pur affrontando il tema in maniera tanto onesta e realistica – il film ha molto in comune, soprattutto nella sua forza di penetrazione nello spettatore. Che Gergolet conquista con un film capace di posarsi e sedimentare nella coscienza di ciascuno come la polvere di amianto protagonista, di restare dentro, simbolicamente, grazie alle sue molte suggestioni e spunti di riflessione, visto che anche l’empatia istintiva qui non è né una risposta né un porto sicuro dal quale osservare gli eventi.
Non esiste vendetta più dolce
Il comportamento di Angela è ambiguo, condivisibile ed esecrabile insieme, lei stessa è confusa, divisa tra rabbia e pietà, vendetta e perdono, ed è proprio qui la potenza del film, che il regista – esordiente nella finzione, ma niente affatto privo di esperienza – costruisce affidando alla geometria di certe inquadrature, le scenografie, le location e il commento sonoro (per non parlare della lingua slovena) un ruolo fondamentale. Anche nella rappresentazione del tormento di vittime e carnefici, costretti alla stessa prigione, forse alla stessa condanna, e per questo a specchiarsi gli uni negli altri.
Il passato è doloroso, il giudizio è complicato, la colpa impossibile da espiare. E così vendetta e perdono finiscono per confondersi, rovesciarsi, nell’abile messa in scena di Gergolet, che senza sprecare parole racconta una donna, un uomo, due famiglie, una comunità, un mondo, il nostro, fatto anche di recrudescenze etniche, ingiustizie sociali (come ricorda il sentito cameo di Paolo Rossi o la paura di affidarsi a sconosciuti alla fine della propria vita). Difficile non farsi coinvolgere a uno – o più – di questi livelli, senza moralismi o certezze incrollabili, o non aprire gli occhi sulla complessità di certe situazioni, spesso nascoste nel non detto o nell’inconscio dei sopravvissuti.