Maria Maddalena, la recensione del film con Rooney Mara

maria maddalena

L’immagine con cui si congeda Maria Maddalena è inequivocabilmente pensata per chiudere l’ennesima parabola cinematografica sulla rivendicazione del ruolo della donna nella società; ci stupirebbe sapere che nella testa di Garth Davis, regista (quasi) alle prime armi, e delle due sceneggiatrici (donne, ovviamente) Helen Edmundson e Philippa Goslett, non ci fosse sempre stata questa intenzione, o almeno questo cambio di prospettiva incoraggiato dal clima degli ultimi anni. Partendo proprio da una figura femminile “riabilitata” ad altro rispetto al comune sapere, la Maria di Magdala oggi festeggiata dalla Chiesa Cattolica ma a lungo giudicata una peccatrice, una prostituta e un’adultera.

 

Una lettura politica del personaggio di Maria di Magdala

C’è qualcosa di demoniaco nella giovane figlia di Genezaret – il lago d’acqua dolce situato in Israele – che suo padre non comprende né accetta: Maria è avversa al matrimonio (combinato e forzato) e alla vita delle donne del suo rango, tutte mogli, pescatrici e incubatrici. Se vogliamo, una lettura del genere unita alla scelta di seguire il predicatore Gesù di Nazareth, è già di per sé moderna e coraggiosa, addirittura politica. Maria non vuole essere ciò che la società impone, ma insegue un desiderio più grande e individualista, e questo tormento esistenziale trova finalmente pace nella scoperta di un’alternativa e del viaggio da compiere affinché si realizzi.

Torna il viaggio al centro della narrazione del cinema del regista australiano, che dal precedente Lion porta con sé lo stesso direttore della fotografia Greig Fraiser (Zero Dark Thirty, Foxcatcher e Rogue One: A Star Wars Story) e strappa l’ultima colonna sonora originale al compianto Jóhann Jóhannsson, il musicista islandese scomparso a Febbraio. Nulla da dire quindi sul comparto tecnico e visivo del film, perso tra scenari mozzafiato e colori al margine di albe e tramonti – una meraviglia che vale il prezzo del biglietto – e primi piani agitati, con camera a mano che indugia i contorni di porcellana di Rooney Mara, ogni volta da perdercisi dentro; tuttavia esaurito l’entusiasmo delle scene iniziali e la funzione di queste due uniche espressioni (campo lungo e volto degli attori), Maria Maddalena perde pezzi a effetto valanga, non raccoglie niente di ciò che semina e denuncia una certa povertà di inventiva.

Un viaggio cinematografico senza inventiva

Femminista, ma nemmeno troppo, pudico e cauto nel trattare le sorti del personaggio (e di quelli che le gravitano attorno, come Giuda che non regge il dolore del lutto e dunque tradisce il Messia o Pietro, qui diventato nero, che sembra eccessivamente maschilista senza reale motivo), il film procede a rilento e più naviga nel vuoto, più si stringe sui monologhi di Gesù, che interpretato da Joaquin Phoenix non poteva che essere problematico, scostante, scurissimo nell’anima e un po’ santone (passateci il termine). Facendo naufragare le speranze del prologo e il discorso alternativo alle letture che conosciamo e al pensiero retrogrado in cui ci siamo spesso trascinati. La vera chicca, in tutto ciò, è che Maria Maddalena sia stato prodotto dalla compagnia di Harvey Weinstein e che in America, terra di fuoco tra denunce di molestie e rivoluzione femminile, potrebbe non uscire affatto. Insomma, tanto rumore per nulla.

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