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Nessun Posto al Mondo: la recensione del documentario di Vanina Lappa

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È sempre una buona notizia quando un documentario esce nelle sale: è il caso, martedì 7 maggio, di Nessun posto al mondo, il secondo lavoro di Vanina Lappa dopo l’esordio Sopra il fiume, premiato al Filmmaker Festival di Milano nel 2016. Un documentario non è un’impresa reddituale e veder approdare sullo schermo la tenacia e la pazienza con cui l’autrice ha documentato un mondo che sta per scomparire rappresenta una speranza di vedere altri produttori interessarsi a progetti difficili o non televisivi che dir si voglia. In tempi di cinema consumato velocemente, Nessun posto al mondo ci permette di riconquistare il piacere della lentezza: quella della visione che si inoltra in profondità consentite solo dall’indugio della macchina da presa e quella di una persistenza fatta di fede e tenacia che solo i documentaristi conoscono. I sei anni dedicati da Lappa a questo progetto vincitore del 64esimo Festival dei Popoli la elevano a pieno titolo tra quelli più appassionati. 

Nessun posto al mondo pone alla stessa altezza uomini, animali e santi

Nessun posto al mondo è un racconto di suoni e silenzi, di cieli stellati che sovrastano allo stesso modo uomini, animali e santi legati alla terra da una ritualità millenaria.  Siamo nel Cilento, sul monte Cervati, dove la transumanza è un ritualità che si consuma fin dal XVII secolo tra la Basilicata e la Campania. Qui un lungo cammino vede ancora oggi i pastori condurre le proprie mandrie a piedi attraverso i boschi e lungo pendii scoscesi alla ricerca del pascolo migliore: è il tempo immoto di questa tradizione, quello che la regista cerca di fermare con inquadrature di qualità pittorica, espressione della sua formazione visiva all’Accademia di Belle Arti. 

Lappa ha seguito i pastori nei loro spostamenti, fermandone gesti e pensieri che risultano sempre più in contrasto con l’avanzare di un mondo diverso, segnato dai confini, dove le vacche transumanti sono tassate in misura importante per i pastori non residenti nel comune di pascolo. Le leggi moderne si sovrappongono a quelle ataviche per svuotare la montagna e consegnarla ai percorsi degli uomini attraverso Parchi Nazionali che preservano una montagna-cartolina. “Che montagna è mai questa senza il suono dei campanacci delle vacche?” si chiede Antonio Pellegrino, sociologo e co-fondatore della Cooperativa Terre di Resilienza di Caselle in Pittari, che si è prestato a guidare l’autrice nel suo cammino di scoperta della terra cilentana. “Che montagna è senza transumanza?” si chiede Pellegrino.

Il suo volto asciugato dal sole e dal vento è il volto della terra che percorre da sempre ma che ora sente in pericolo come non mai. La sua voce, tanto sicura quando parla la lingua degli animali per richiamarli, ammansirli, instradarli, si fa gonfia di smarrimento di fronte a un silenzio nuovo che racconta il vuoto e la mattanza di armenti ‘non controllati’ uccisi da norme per lui incomprensibili. “Vogliono pulire la montagna e invece l’hanno inondata del sangue che ritengono infetto, senza contare che uccidere gli animali che si vanno ad abbeverare è sbagliato”, commentano i pastori, ed è in quella forma di rispetto che li pone sullo stesso piano degli animali che accudiscono che comincia l’ascolto del sacro.

Nessun posto al mondoIl racconto dei legami forti della tradizione

Quello che qui si racconta con lirico realismo è uno spazio che oggi è sempre più ristretto dall’erosione della modernità fatta di auto, televisione e smartphone ma che trova ancora, tuttavia, la forza dei propri legami nella preservazione delle tradizioni legate alla natura. Sono legami forti che trovano radice in questa dimensione a spingere i pastori a distruggere la recinzione di un pascolo comune di ostacoli alla transumanza e allo scorrere del tempo come lo hanno sempre conosciuto. Lo stesso senso di appartenenza che spinge centinaia di persone ad accompagnare la statua della Madonna della Neve di Sanza in una processione notturna che arriva fino a duemila metri.

Alla regista sono occorsi tre anni per seguire il rito con l’attenzione dovuta e raccogliere il materiale poi confluito nel montaggio che lei stessa ha curato. E non è con minor senso di sacralità che Lappa filma l’incedere quasi a passo di danza delle vacche attraverso il paese, quasi fosse possibile aspettarsi di vederle avanzare fino al bordo dello schermo e oltre, per riconquistare la libertà che la storia ha riservato loro in nessun posto al mondo, appunto, come nel Cilento.

Sommario

Il documentario di Vanina Lappa pone la macchina da presa alla stessa altezza per inquadrare gli uomini, gli animali, i santi: su tutte le figure domina la volta del cielo stellato di preziose riprese notturne a ricordare che il tempo immoto della tradizione è l'unico capace di tenere legati tutti gli abitanti della terra

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