Oh Boy Un caffè a Berlino recensione del film di Jan Ole Jerster

Oh Boy Un caffè a Berlino recensioneC’è qualcosa in Oh Boy. Un caffè a Berlino di Jan Ole Jerster che ricorda i film muti di Charlie Chaplin: non che qui manchi il suono della voce, né tantomeno è la scelta stilistica del bianco e nero a rievocarli; piuttosto sono le atmosfere inquiete e malinconiche della vita metropolitana, insieme alla condizione marginale del protagonista, a creare questo particolare aggancio.

 

Se un tempo c’era un personaggio ben vestito e con gli storici baffetti a vagabondare per la città moderna degli anni ’20 – ‘30 imbattendosi, puntualmente e ingenuamente, nel cinismo e nella vanità piccolo borghese; ora è il giovane Nico Fischer (Tom Schilling), in uno spazio-tempo differente (la Berlino odierna), e con un jeans e una camicia, a rappresentare un analogo senso di inadeguatezza e di impotenza, tanto nella sfera pubblica quanto in quella intima e privata. Oh boy, un caffe' a Berlino (locandina)Ma forse il principale elemento in comune tra i due riferimenti sta proprio nella materia della narrazione: ovvero nella scelta di concentrare l’attenzione su azioni apparentemente insignificanti, banali, quotidiane; ma da cui si evince, con sconcertante immediatezza, il dramma di esistenze alienate, disadattate, per quanto dotate di un certo potenziale, umano e intellettivo.

Così, come nella filmografia chapliniana, anche nell’opera, già pluripremiata, del regista tedesco, prende forma una struttura frammentata, basata su tragicomiche gags che coinvolgono il protagonista nell’arco di una singola giornata, in cui è il vano tentativo di bere un semplice caffè a fare da motore e filo conduttore dell’azione. Ventiquattrore all’insegna  di un fallimento dopo un altro: dal mancato rinnovo della patente, precedentemente ritirata per guida in stato di ebbrezza, alla predica paterna sugli inganni e l’inadempimento relativi agli studi universitari, fino all’incontro con una ragazza psicologicamente instabile e borderline che lui non sarà in grado di aiutare, se pur mosso dalle migliori intenzioni. Un continuo rispecchiarsi nello sguardo e nel parere altrui che riflettono, all’unanimità, fragilità e schizofrenia, insieme alla mancanza di dialogo e compassione. Un sentimento quest’ultimo di cui lui, sul finale, cercherà, tuttavia, di farsi promotore nei confronti di un perfetto sconosciuto, solo, ubriaco ma, in un certo senso, depositario di una grande verità. È l’ennesimo incrocio casuale di esistenze che, a  volte, non lascia alcuna traccia; altre volte, invece, ti desta dal sonno della coscienza, offrendoti una nuova chance.

Un racconto, dunque, lungo un giorno, costruito sul pedinamento del protagonista, di cui la cinepresa, con rispetto e discrezione, ne registra le reazioni e le emozioni senza mai, per queste, scadere nel patetico o nel melodrammatico; mentre sta alla colonna sonora, prettamente jazz, il compito di scandire e accompagnare il seguire degli eventi, aggiungendo, all’insieme, un tocco di delicatezza e nostalgia.

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