Col film che s’intitola Pietro, il
regista Daniele Gaglianone ha gareggiato al Festival del Cinema di
Locarno 2010. L’ambientazione è a Torino, nei “grigi” quartieri in
periferia. Il protagonista Pietro sta superando l’età della
giovinezza, ma dei problemi psicologici ne frenano il
raggiungimento della maturità. Più che la goffaggine nei movimenti,
in lui conta la continua “sudditanza” ai comandi del fratello
Francesco, tossicodipendente. I due giovani vivono insieme, in un
appartamento fatiscente.
Il film di Gaglianone ha una
fotografia esteticamente interessante. La macchina da presa
s’avvicina parecchio ai volti od ai corpi, ma paradossalmente solo
per mostrarcene l’ombra. Tendenzialmente l’illuminazione si dà
sullo sfondo, in chiave diffusa: per questo, noi la percepiamo più
astrattamente. Il film Pietro diventa nero sia a livello narrativo
(con l’aggressione al barbone, lo scherno ai cosiddetti
volantinatori, l’omicidio per vendetta ecc…) sia attraverso la
fotografia. Nell’astrattezza pallidamente in luce sullo sfondo,
percepiamo il vuoto della mente (del pensiero). Ricordiamo che i
due fratelli hanno problemi psicologici: Pietro per le sue
insicurezze, Francesco con la tossicodipendenza. La regia di
Gaglianone è programmata per seguire la goffaggine del
protagonista. Pietro si muove a mo’ d’una piccola “marionetta”, e
non solo ove debba divertire gli amici delinquenti del fratello
(che spacciano la droga).
La macchina da presa
inquadra tutte le “indecisioni” dell’azione. Pietro ignora qual sia
la scaletta delle battute da recitare, nella sua “pagliacciata”.
Alla fine, ci sembra che lui improvvisi. Avvicinata al volto od al
corpo del protagonista, la macchina da presa ne riceverà
continuamente gli sbalzi espressivi. C’è poi “l’indecisione dello
sguardo”. Consideriamo il fermo-immagine di Pietro davanti agli
inquirenti: lui da un lato ascolta passivamente l’imputazione, ma
dall’altro lato potrebbe “analizzarla”, assumendo un’aria più
pensierosa. L’inquadratura di Gaglianone diventa “tirata” un po’
qua un po’ là, come accade fra le mani del burattinaio. Valga
soprattutto la scena dove i fratelli giocano a preparare uno dei
loro spettacoli. Percepiamo una certa “movenza pagliacciata” mentre
Pietro realizza la sua vendetta, contro la “malattia psicologica”
del mondo che lo aliena. Lui lavora come volantinatore di materiale
pubblicitario (fra i tergicristalli delle autovetture o nelle
cassette condominiali). Il capo lo stimola ad alienarsi sempre più,
essenzialmente perché ne deve approfittare, in quanto . Una battuta
senza dubbio importante. Se Pietro ha dei problemi psicologici, è
anche perché gli manca un “vero” lavoro. Ma a tessere le fila della
nostra società pare la grande “marionetta” del mercato. La
recitazione di Pietro Casella nel ruolo principale esteticamente è
valida. In lui, l’intensità espressiva della “marionetta” finisce
sempre per “adombrarsi”, svuotandosi tramite uno sguardo
malinconico, verso un mondo che gli pare totalmente estraneo.
Sono nato nel 1979, vivo a Bassano
del Grappa (VI). Presi la laurea in Filosofia, con una tesi
sull'estetica contemporanea (di ramo fenomenologico ed
ermeneutico). Ho studiato soprattutto Heidegger, Gadamer, Deleuze,
Bataille, Derrida, Dufrenne, ecc... Mi sono laureato nel 2004,
presso l'Università Statale di Padova. Dal 2006, scrivo recensioni
e monografie di "critica estetica" per artisti, registi, scrittori,
modelle, fotografi.