Poetry: recensione del film di Lee Chang-Dong

Poetry

Dopo il successo ottenuto a Cannes 2010 (Premio per la Miglior Sceneggiatura) e agli Asian Film Awards 2011 (Miglior Regia e Miglior Sceneggiatura), sarà dal 1 aprile nelle sale italiane l’ultima fatica del regista coreano Lee Chang-Dong: Poetry. Già scrittore e sceneggiatore, si è fatto apprezzare in questi anni dalla critica e dal pubblico internazionali, essendo oggi una delle più autorevoli voci della cinematografia asiatica, per la sua continua ricerca formale e per la capacità di affrontare con estrema delicatezza, ma al contempo con fermezza, temi difficili.

 

Lo aveva fatto nel suo secondo lungometraggio Peppermint Candy (2000), e poi con Oasis (2002), torna a farlo oggi con Poetry. Poetry è incentrato sulla figura di Mija, anziana donna di modeste condizioni sociali che si prende cura del nipote liceale, Wook, scorbutico e scansafatiche, totalmente deresponsabilizzato e sprezzante nei confronti della nonna. Mija è una donna vitale e operosa, nonostante l’età, curata nell’aspetto e sensibile, che si fa in quattro per dare il meglio al nipote, forte da un lato, ma schiacciata, dall’altro, dal peso di compiti e responsabilità più grandi di lei. Si pone però di buon grado ad assolvere alle incombenze quotidiane (come quella di badare a un anziano disabile per arrotondare le sue entrate), non senza pensare a concedersi uno spazio per sé. Decide infatti di frequentare un corso di poesia. Quello della protagonista è un percorso, una presa di coscienza, dovuta a due elementi principali introdotti all’inizio di Poetry: l’insorgere nell’anziana del morbo di Alzheimer, e la scoperta sconcertante che il nipote è implicato nel suicidio di una coetanea, poiché l’ha violentata assieme a cinque suoi compagni di scuola.

Poetry, il film

Da queste premesse Poetry si dipana con i ritmi tipici del cinema di Lee Chang-Dong (gli stessi dell’acqua che vediamo scorre lenta e inesorabile all’inizio e alla fine della pellicola) seguendo due binari paralleli, che in ultimo si fondono e costantemente invitano lo spettatore a indagare, a scoprire la possibilità della loro intersezione. Da un lato, la violenza (quella sessuale perpetrata ai danni della ragazza, quella del gretto maschilismo dell’uomo cui Mija fa da badante, o del nipote che non la rispetta), il sangue, la crudeltà e il cinismo del mondo che Mija scopre pian pian piano attorno a sé, rappresentato dai genitori che cercano un accordo economico con la madre della morta pur di salvare i figli colpevoli dalla giusta pena. Dall’altro, la bellezza della vita, della natura, della poesia stessa, che la protagonista impara a “vedere” gradualmente grazie al corso che sta frequentando, e forse grazie alla sua malattia. La pellicola può essere letta, dunque come un percorso di avvicinamento alla morte, di rinuncia all’onnipotenza e anche alla comprensione: Mija non saprà mai perché il nipote ha commesso quel crimine (sovrana è l’incomunicabilità tra due generazioni che paiono distanti anni luce), e capisce man mano che non è importante saperlo, né risolvere la situazione è suo compito. Allo stesso modo comprenderà che la bellezza ricercata attraverso la poesia – dovrà comporne una prima della fine del corso – si può trovare e apprezzare a pieno solo quando si è passati attraverso sofferenza e dolore.

Assistiamo perciò a questo passaggio, a questa acquisizione di consapevolezza, riuscendo a “vedere” attraverso gli occhi di Mija, grazie alla grande prova di recitazione di Jun Junghee – nota star del cinema coreano, di nuovo sugli schermi dopo sedici anni di assenza. L’attrice rende al meglio rassegnazione, tristezza, spaesamento, rabbia, così come lo stupore, l’incanto di fronte alla natura che sembra scoprire per la prima volta. Le sue sono emozioni nascoste, quasi implose, rese con una chiave recitativa lieve e misurata, mai plateale, e forse perciò più efficace. Regia e fotografia si accordano sapientemente nell’alternare ampi spazi naturali e paesaggi (che ricordano a noi e a Mija il flusso continuo della vita e i suoi ritmi, ai quali siamo soggetti ma che troppo spesso dimentichiamo), all’analisi dei personaggi, scrutati da vicino solo quando è necessario.

Per quest’analisi il regista prende il suo tempo (2 ore e 19 minuti la durata della pellicola, fors’anche con qualche scena di troppo) e più che darci una tesi, ci suggerisce qualcosa, invitandoci continuamente a farci domande e a partecipare noi stessi nel colmare “lo spazio bianco” di Poetry, che ha voluto lasciare ampio, proprio come quello di una pagina su cui sia stata scritta una poesia. L’analogia tra le due arti è infatti evidente, così come inevitabile è l’interrogativo sull’utilità dell’una e dell’altra in tempi difficili da decifrare, come i presenti. La risposta dell’autore non è esplicita, anzi, egli rivolge a tutti noi il quesito durante Poetry, ogni qualvolta un personaggio si stupisce di quest’anziana donna che cerca la poesia e la bellezza nelle cose di ogni giorno, ma implicitamente, realizzando il lavoro, e attraverso il titolo così simbolico, dà la sua risposta. La pellicola, prodotta dalla Pine House Film dello stesso Lee Chang-Dong, è distribuita in Italia dalla Tucker Film e uscirà in circa trenta copie.

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