Ragazzaccio, la recensione del film sul bullismo fatto per i ragazzi

Il teen drama sentimentale di Paolo Ruffini punta a superare barriere e stereotipi

Ragazzaccio recensione

E’ dedicato ai ragazzi, gli “intelligenti che non si applicano” come il Ragazzaccio del titolo, uno di quelli che vengono “buttati fuori” invece che tenuti ‘dentro’, inclusi e fatti sentire parte di qualcosa di più grande e comune. “Ero uno di loro“, dice il regista, Paolo Ruffini, che prima di questo gradito ritorno alla regia (al cinema dal 3 novembre, distribuito da Adler Entertainment), in due precedenti documentari ci aveva portato tra i malati di Alzheimer e con i ragazzi con Sindrome di Down, che in diverse occasioni abbiamo visto con lui. E che non perde occasione per sottolineare come la diversità spesso sia negli occhi di chi la vive, male, per parafrasare un noto refrain.

 

Stavolta in un film costruito insieme a Beppe Fiorello, Massimo Ghini, Sabrina Impacciatore (oltre a Nicola Nocella, dietro le quinte) e ambientato durante la pandemia, eppure non sul Covid-19, quanto piuttosto sugli effetti sugli adolescenti della forzata mancanza di interazione in una fase fondamentale per lo sviluppo delle relazioni sociali. Una storia d’amore, ma soprattutto un viaggio nella solitudine e la sofferenza di un cosiddetto “bullo”, anche lui vittima delle conseguenze di quel momento storico e delle proprie difficoltà, della mancanza di ascolto, anaffettività e aspettative schiaccianti, nel bene e nel male.

Ragazzaccio – Anche i Bulli piangono

Il bullo è Mattia, affidato all’esordiente Alessandro Bisegna, costantemente ‘contro’ e preoccupato più di far divertire gli amici che di affrontare la paura di essere bocciato per l’ennesima volta. Tra lezioni in Dad e videogame, le sue interazioni sono ovviamente mediate dallo schermo del computer o del cellulare, dove però scopre l’idealista Lucia (alla quale dà corpo la star di Instagram Jenny De Nucci). Che inizia a valorizzare quello che agli altri Mattia tiene nascosto, che gli fa scoprire un sentimento nuovo. Analogamente a quel che fa il suo professore di Letteratura (Beppe Fiorello), che lo ascolta accompagnandolo verso un ritrovato amore per sé stessi e per la bellezza, ma anche per i suoi genitori: suo padre (Massimo Ghini), infermiere travolto dall’emergenza sanitaria, e sua madre (Sabrina Impacciatore), insoddisfatta e facile preda di ogni tipo di complottismo.

Pandemia, disagio e sofferenza

Una vicenda assolutamente non banale come le premesse rischierebbero di farla apparire, tanto siamo abituati a un trattamento strumentale e pigro di certi temi. Un “romanzo di formazione”, come lo descrive la produzione, al quale il minimalismo produttivo pare aver giovato, in grado di utilizzare i social network senza farsi limitare dagli stereotipi che li circondano e di raccontare un mondo degli adulti talmente spaventato e preoccupato per i propri figli da finire per trascurare proprio loro.

Non a caso Ruffini ribadisce “l’ho fatto per i ragazzi”, se non fosse abbastanza chiaro dal taglio e dalla forma scelta, che nel tentativo di abbracciare ogni aspetto dell’universo adolescenziale di riferimento finisce forse per forzare alcune narrazioni e l’idillio al centro dello sviluppo, restando comunque sempre gradevole e credibile. Merito anche di un lavoro di ‘traduzione’ del mondo teen per un pubblico che quell’età ha superato da tempo, e al quale si cerca di parlare dei “sognetti” di chi ancora non ha gli strumenti adatti per comprendere se stesso prima ancora della realtà in divenire che lo circonda.

Al netto di debolezze, retorica o semplificazioni – senza volerne fare una colpa a un film comunque riuscito, nonostante le condizioni in cui è stato realizzato – con Ragazzaccio Ruffini si conferma capace di comunicare quello cui tiene, come già fatto in precedenza. E di aiutare chi potrebbe averne bisogno a trovare una chiave utile: ai più giovani, per non sentirsi soli e incompresi (utile ricordare il numero verde 800-770-960 della Associazione Nazionale dipendenze tecnologiche, Gap e Cyberbullismo Di.Te.), e ai loro ‘maestri’, pur angosciati e disperati. Tutti, ognuno a suo modo, abbandonati a se stessi e affamati di momenti “da screenshottare“. Tutti pronti a scioglierci e (af)fidarci al più semplice e fondamentale dei “tu come stai?”.

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