Sanctuary, recensione del film con Margaret Qualley

Le mura della stanza di hotel che accoglie Rebecca e Hal in Sanctuary sono molto più che sguardi discreti che osservano il gioco al massacro compiuto dai due

Sanctuary recensione

Trai titoli più interessanti della Festa del Cinema di Roma, fa capolino Sanctuary, opera seconda di Zachary Wigon. Sono scrigni silenziosi le pareti degli hotel. Con il loro intonaco più o meno colorato, si ergono attorno a noi assorbendo ogni respiro, percependo ogni emozione, facendosi custodi di segreti inconfessabili, o momenti passeggeri. Tra le mura degli hotel dei corpi si incontrano, altri si lasciano; le bocche si baciano, o i cuori si spezzano.

 

Le mura della stanza di hotel che accoglie Rebecca e Hal in Sanctuary sono molto più che sguardi discreti che osservano il gioco al massacro compiuto dai due: sono sipari teatrali di un kammerspiel soffocante, quinte imprigionanti di un palcoscenico dove nulla è come sembra, e tutto appare per quel che non è. Entro i loro confini diventa quasi impossibile stabilire il ruolo affidato e svolto dai due protagonisti, entrambi schiavi di un continuo gioco all’inganno in cui nessuno ne esce vincitore, ma solo prigioniero. Prigioniero delle proprie maschere; prigioniero della propria performance perpetuamente mutabile e in evoluzione. Prigioniero dell’altro e di se stesso.

Sanctuary, la trama

Interno: suite di un albergo di lusso. Qui si incontrano un uomo sulla trentina e una giovane avvocatessa chiamata per delle verifiche burocratiche. Lui si chiama Hal Porterfield, erede di una catena di alberghi e prossimo amministratore delegato di un impero milionario a seguito della orte del padre. Lei è Rebecca, giovane aggressiva e misteriosa, che nella vita non svolge il ruolo di avvocatessa, bensì di dominatrice assunta dallo stesso Hal per testare la propria tenuta psicologica sul lavoro. In un continuo gioco di realtà e finzione, sarà difficile per entrambi – soprattutto per Rebecca – scindere se stessi dal proprio personaggio, cambiando continuamente i rapporti di forza fra cliente e padrone, dominatore e dominato. Chi la spunterà?

Non c’è nulla di lineare in Sanctuary. Nel film di Zachary Wigon, il rapporto di dominio si stacca della propria tangibilità fisica per elevarsi a una lotta psicologica dove ogni pensiero viene ribaltato, ogni parola messa in discussione, per creare nuovi pensieri, nuove realtà mentali in cui muoversi e recitare nuove parti. Ne consegue un labirinto senza fine, dai percorsi intrecciati e complicati, lungo i quali lo spettatore si ritrova a vagare senza meta. Sottratto di ogni direzioni con cui orientarsi, le uniche ancore a cui può affidarsi sono corpi di due giovani che si attraggono e respingono, abbracciano e attaccano. Un movimento continuo che destabilizza la visione, scaturendo un senso di nausea per un’incapacità di comprensione di un rapporto difficile da cogliere nel contesto logico e sentimentale. Rebecca e Hal sono colti nei loto tentativi reciproci di dominio fisico e psicologico, mentre tutto attorno crolla, perde le proprie base razionali, lasciando in bocca un retrogusto di visione perturbante.

Micce esplosive

È un santuario che di sacro ha ben poco quello eretto da Wigon: a muoversi silente tra gli inframezzi dei propri raccordi è adesso un effetto straniante pronto a riflettersi e influenzare ogni singolo elemento in campo. E se a dominare questo inafferrabile costrutto visivo è un’irrequietezza sia del corpo, che della mente, a orchestrare questa montagna russa perpetuamente in azione, non poteva essere che una regia ancora più disorientante e mutabile. Da primi piani affidati a grandangoli che distorcono i volti, tramutandoli in maschere dell’angoscia, a carrellate improvvise, passando per panoramiche a 360°, la macchina da presa di Wigon enfatizza ogni senso di perdita razionale, traducendo visivamente due anime fragili, incapaci di comprendere il proprio volere affidando alle fragilità dell’altro un senso di rivalsa e fisico predominio.

Sarà nel momento dei dialoghi, in quella creazione di nuovi contesti in cui inserirsi con maschere nuove e sempre uguali, che la macchina da presa si cristallizza mettendosi in pausa: immobile, lascia che il processo di creazione e reciproco influenzamento mentale faccia il proprio corso, ferma nell’attesa spasmodica di una miccia pronta di nuovo a esplodere, dando vita a un ulteriore gioco al massacro psicologico, tra recriminazioni, ricatti e bugie.

Un gioco al massacro

“Dimmi che per te è importante. Che non puoi viverne senza”. È un ritornello ridondante, una cantilena ripetuta da entrambi i protagonisti di Sanctuary, questa, una nenia recitata più per autoconvincersi che qualcosa per cui vale la pena vivere esista per davvero, che per pura asserzione. Nel microcosmo alberghiero di Hal e Rebecca nulla pare valere davvero. Che siano 6 milioni di dollari, un orologio prezioso, o una videocamera da scovare, la posta in gioco per questi due personaggi cambia perpetuamente al mutare del ricatto, sintomo che la vera mancanza per loro è da ritrovarsi più profondamente nei meandri di anime incomprese e incapaci di amare, che nella materialità di oggetti da distruggere. E così, nell’arco di un solo spazio, quelli che si attaccano, stuzzicano e uniscono, sono i corpi di mille maschere e diverse personalità.

Una galleria psicotica racchiusa nella cornice di due fisicità opposte, tra chi vuole dominare e chi si lascia manipolare. Rebecca e Hal sono lo Yin e lo Yang di una lotta continua, due pianeti che collidono senza congiungersi mai. Ciò che rimane da questo conflitto di maschere che cadono e altre che ritornano, è la perdita dell’umanità a favore di un istinto animalesco misto a tossica interdipendenza. Così come non possono fare a meno l’uno del potere fisico (ma anche economico) dell’altra, Rebecca e Hal ricercano le fragilità altrui, le sfruttano, per intelaiare una rete succuba di interdipendenza in cui, tra stanze distrutte, e giochi mentali, tutto viene sconvolto in una vertigine visiva lasciata scorrere lungo associazioni mentali, e fotografie rosso fuoco, o blu glaciale. 

Una, nessuna, centomila maschere

In un mondo che tutto cambia all’esternazione di parole che creano con fare divino, non poteva esserci interprete migliore di Margaret Qualley per dar vita all’ipnotica, e imprevedibile, Rebecca. Il volto dell’attrice è pura argilla da modellare sulla forza di mille espressioni. È una mimica volutamente caricata, la sua, che risponde in maniera coerente a un universo cangiante e mai afferrabile come quello di Sanctuary. Che sia l’imitazione del padre di Hal, o la declamazione del giuramento alla bandiera americano, la sua Rebecca è uno, nessuno e centomila sfumature di donna. La modulazione della voce è, infatti, un ponte privilegiato attraverso cui lasciar trasparire mille e altre personalità, facendo della Qualley un’intensa presta-corpo di identità sfuggevoli e pensieri complessi. Quello messo in campo dalla donna è un rifiuto netto di mostrarsi statica e fissa nei confini di un determinato carattere; una volontà che si ripercuote anche nel proprio corpo flessibile e dinamico, perennemente in movimento come la sua mente in elucubrazione.

Rebecca è, insomma, uno tsunami inatteso pronto a ingoiare la terra ferma di un Hal imprigionato in un’insicurezza che lo rende perfetta vittima del gioco al dominio della donna, e preda manipolabile bloccata sull’agire. È solo nel momento di vero terrore, preso dall’angoscia di mostrarsi nelle forme delle proprie fobie e trasgressioni, che Hal si tramuta in un fuoco che tutto arde e distrugge: ma le sue fiamme sono facilmente domate dalle onde di Rebecca, e così quell’incendio personale si spegnerà ben presto all’ombra dell’ennesimo ricatto. Quella che vive tra Hal e Rebecca è pertanto una costruzione psicologica dai tratti dicotomici non solo ben delineata dallo sceneggiatore Micah Bloomberg, ma soprattutto restituita in maniera impeccabile dai due attori che si fanno riflesso speculare di un’altra, indimenticabile, coppia del genere thriller come Laurence Olivier e Joan Fontaine nel capolavoro di Alfred Hitchcock, Rebecca.

Tanto nell’opera hitchcockiana, che in quella delineata da Bloomberg in Sanctuary, il potere va a braccetto con l’ingenuità e la manipolazione, in una danza eterna che tutto prende e decostruisce, fino all’esasperazione, fino alla nausea, fino al dominio della mente e il soggiogamento del corpo. 

- Pubblicità -