Hirokazu Kore-eda racconta la famiglia, il legame naturale, quello di sangue e quello istintivo, la differenza che passa tra il nascere famiglia e diventarlo. Il suo nuovo film, in concorso a Cannes 2018, Shoplifters, si colloca alla perfezione nella sua poetica, senza aggiungere nessun elemento di novità nel suo approccio ma affrontando lo stesso argomento con una rinnovata ferocia e impotenza.
Il titolo internazionale è traducibile con “taccheggiatori”, e questo fanno Osamu e suo figlio, arrotondando così il piccolissimo introito familiare. Tornando a casa da una “seduta” al supermercato, i due trovano una bimba di 5 anni, apparentemente abbandonata, decidono di portarla a casa con loro. Quella che doveva essere una sola notte, si ripete perché la coppia capisce che la bambina veniva maltrattata e decidete di proteggerla tenendola con sé. Con loro vivono anche l’anziana nonna e la sorella di Hatsue.
Le dinamiche familiari appaiono tradizionali, anche se in alcuni dialoghi, in certi dettagli dell’intimità, si intuisce qualcosa che tradizionale non è. Scopriamo solo dopo un po’ che la famiglia in questione è tale per scelta. Tutti i membri della stessa non hanno legami di sangue, si sono scelti, trovati per caso, e vivono insieme facendosi l’un l’altro scudo, contro la città e la sua fredda indifferenza.
Kore-eda intavola così un discorso che mette al centro la scelta di amare e non la condizione per cui si è “obbligati” a farlo dalla nascita e dalle circostanze. Il tono del film è leggero, allegro, con un ritratto di vita domestica quotidiana che alterna i giochi dei bambini, al lavoro da prostituta della sorella minore, ai taccheggi nei piccoli negozi, alla passione tra Osamu e Hatsue. Vita quotidiana di anime sole che si sostengono con l’affetto reciproco.
A questo aspetto, per certi versi idilliaco, si contrappone un’ultima parte del film che mette a nudo la crudeltà distaccata della legalità. La famiglia protagonista è un nucleo illegale, i bambini non possono andare a scuola perché non sono figli naturali della coppia genitoriale, la nonna, che si spegne nella notte, non può avere un funerale dignitoso. E quando un incidente metterà la famiglia di fronte alla necessità di uscire allo scoperto, l’idillio finirà.
L’amore viscerale,
istintivo, si scontra con la burocrazia, la legalità. In questo,
Kore-eda si rivela estremamente feroce nel
rappresentare la durezza con cui la burocrazia e la legge sono
disposti a rimandare una bambina a vivere con i genitori naturali,
genitori che la terrorizzano e la picchiano, piuttosto che
lasciarla con in un contesto che invece aveva regalato soltanto
affetto e cura alla piccola.
La disperazione di Hatsue, condannata per rapimento e forse per omicidio, è l’emblema di questo scontro, nel finale del film, l’eterna e sempre attualissima contrapposizione tra il significato di essere madri (e padri), la differenza tra l’essere e lo scegliersi, consapevolmente, volontariamente, d’istinto. Di fronte però all’istinto di amore e conservazione, le regole, la legalità sono più forti. E di fronte a questa ferocia, lo spettatore rimane con gli occhi pieni di malinconia, di tristezza, a guardare, sullo schermo, la bambina di nuovo abbandonata a una famiglia che non la ama.