Un amore di gioventù

Alla sua terza prova di regia, Mia Hansen Løve si conferma a soli 31 anni, una delle più promettenti e interessanti registe del cinema francese, e non solo. Come i precedenti Tutto è perdonato (2007) e il Padre dei miei figli (2009), anche Un amore di gioventù nasce dalla stessa sensibilità ed evidenza: “il bisogno di superare un vuoto affettivo”, esistenziale, e di farlo con l’aiuto dell’Arte. Ma la passione e il tormento provati dalla giovane Camille (cui Lola Créton cede il fascino acerbo e fotogenico di un’esordiente) per la fine del suo primo amore, non sono soltanto il frutto di una riflessione autobiografica, ma, come tiene a precisare l’autrice stessa, materiale cinematografico,  che come tale deve essere trattato.

 

E la Hansen, non c’è che dire, lo fa con grazia e tenerezza. Attraverso uno sguardo semplice, minimale, che segue scrupolosamente i moti d’animo della protagonista, senza mai essere invadente. Quasi come un leale confidente, che a volte indugia sul disagio di chi soffre ma solo perché spera venga presto superato.

Ma tra il punto di rottura e la “rinascita” c’è un tempo interminabile nel mezzo; e qui il meccanismo narrativo un po’ si inceppa nel tentativo di restituirne la pienezza. Risulta quantomeno strano l’improvviso ritorno di fiamma, dopo anni di crescita e cambiamento . Un cambiamento che per Camille si nutre della passione per l’Architettura, e della relazione con il suo insegnante. I luoghi di certo hanno un’anima e lei riesce a comprenderne il linguaggio. Questo l’aiuta a dare una forma sensata, ragionata, a una realtà che fugge; proprio allo stesso modo in cui un buon architetto si sforza di trovare il barlume nell’oscurità della materia. Non è forse un caso che la luce sia un’altra componente integrante del film. Attraversa il paesaggio e si diffonde, fino ad accarezzare il volto di Camille e a raccogliere l’emozione di un’istante: l’istante che l’amore rende eterno.

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