Portare sul piccolo schermo un titolo come Un prophète, film di Jacques Audiard premiato a Cannes e candidato all’Oscar nel 2009, significava misurarsi con un’opera che ha segnato il cinema francese contemporaneo. Enrico Maria Artale – che aveva già presentato ad Orizzonti El Paraiso – ha accettato la sfida, dirigendo la nuova serie in otto episodi Un profeta, presentata fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2025. Un prodotto ambizioso, che cerca un difficile equilibrio tra fedeltà al modello e desiderio di ridefinirne i confini. Non tutto riesce, ma l’operazione mantiene un certo fascino, pur senza raggiungere le vette del film originale.
Una storia di potere e sopravvivenza
Al centro della vicenda c’è Malik (Mamadou Sidibé, al debutto sullo schermo), giovane immigrato africano arrestato a Marsiglia dopo un’operazione di droga finita male. Solo e vulnerabile, trova protezione dietro le sbarre grazie a Massoud (Sami Bouajila), potente e ambiguo uomo d’affari caduto in disgrazia. Ma ben presto Malik comprende che la sua sopravvivenza dipende dal trasformarsi da pedina sacrificabile a giocatore capace di muovere le fila del potere. È il punto di partenza per una riflessione sui rapporti di forza, sulle gerarchie sociali e sulla possibilità di riscrivere il proprio destino in un contesto dominato dalla violenza.
Artale sceglie un approccio che alterna aderenza realistica e suggestioni quasi mistiche. Come ha dichiarato lo stesso regista, la lavorazione ha seguito metodi tipici del cinema indipendente: riprese in ordine cronologico, riscritture durante le riprese, uso diretto della macchina da presa per instaurare una prossimità fisica con gli attori. Questo permette alla serie di distinguersi dalle produzioni televisive più convenzionali, cercando una continuità emotiva e visiva che rafforzi l’immedesimazione.
Il carcere come specchio della società
Uno dei meriti principali della serie è la volontà di spostare lo sguardo dal carcere come “altro mondo” a specchio della società contemporanea. Il tema dell’immigrazione, delle disuguaglianze economiche, delle discriminazioni religiose e sessuali attraversa costantemente gli episodi, radicando la storia nella Francia di oggi. In questo senso, Un profeta non è un semplice remake, ma un adattamento che reinterpreta i motivi universali dell’originale – sopravvivenza, violenza, identità – all’interno di un presente segnato da nuove tensioni sociali.
La serie alterna momenti di forte intensità narrativa ad altri più distesi, in cui prevale la riflessione sul contesto sociale e politico. Questo andamento spezzato contribuisce a dare respiro alla storia, ma allo stesso tempo la allontana dalle dinamiche più serrate del crime tradizionale. Artale sceglie di concentrarsi non solo sull’azione e sui meccanismi del carcere, ma anche sulle implicazioni filosofiche ed esistenziali dei personaggi, accentuando così il carattere ibrido dell’opera, sospesa tra realismo, noir e una dimensione quasi spirituale.
Un profeta di Enrico Maria Artale è, in definitiva, una serie coraggiosa, che prova a rendere contemporanea un’opera di culto senza tradirne lo spirito. L’operazione si distingue per ambizione e per la volontà di intrecciare realismo e suggestioni più liriche, offrendo una prospettiva nuova su temi universali come sopravvivenza, violenza e identità. Non sempre la tensione narrativa resta costante, ma il progetto rimane interessante nel suo dialogo con l’opera originale e nel modo in cui aggiorna il racconto alle contraddizioni della Francia contemporanea.
Un profeta
Sommario
Un profeta rilegge il film di Jacques Audiard aggiornandone i temi alla Francia contemporanea. Tra carcere e discriminazioni sociali, la serie cerca di muoversi sul fragile equilibrio tra realismo e lirismo.