Unbroken: recensione del film di Angelina Jolie

Unbroken

Un’infanzia passata a costruire un perfetto curriculum da teppistello, la scoperta di un talento innato e la corsa, le gare di contea e le olimpiadi del 1936, un’andata e un ritorno dalla seconda guerra mondiale e i campi di prigionia giapponesi. È l’incredibile, e rigorosamente vera, vita di Louis “Louie” Zamperini, atleta dalle origini italiane protagonista assoluto di Unbroken, seconda prova alla regia di Angelina Jolie dopo l’esperimento In the Land of Blood and Honey.

 

L’attrice e produttrice statunitense, supportata da Universal e Legendary Pictures, racconta con passione le pieghe intime di un uomo statuario e incorruttibile, provando a superare il sottotesto politico della storia ma inciampando nella trappola del melodramma ridondante. Forte di un ottimo inizio, dinamico e con un’ottima tensione di base, il film si perde presto in un’eccessiva retorica e in una costruzione pomposa. Scritta principalmente dai fratelli Joel e Ethan Coen, la sceneggiatura appare lineare ed eccessivamente romanzata, probabilmente troppo, tanto da far apparire alcuni momenti del tutto surreali.

Non aiutano i restanti aspetti tecnici della pellicola; proprio la regia risulta obiettivamente didascalica, totalmente accademica, e a questo bisogna aggiungere il peso di alcune scelte di montaggio che parlano un linguaggio vecchio, obsoleto, per non scomodare la parola amatoriale. Completamente sottotono anche la fotografia di Roger Deakins, autore in passato di autentiche opere d’arte come Skyfall e dell’intera filmografia dei fratelli Coen, che illumina uomini e ambienti in modo sorprendentemente piatto e senza zampate di rilievo; tutto è perfettamente in linea, purtroppo, con la colonna sonora di Alexandre Desplat, un semplice e ripetitivo tappeto musicale che evita qualsivoglia gioco con le note e le partiture.

Unbroken

Ogni cosa è dunque accarezzata da un alone di modestia e superficialità, come se ogni membro del cast tecnico abbia dato al progetto il minimo indispensabile, ed è il rimpianto più grande viste le potenzialità del soggetto e dei nomi coinvolti. A salvarsi pienamente dal naufragio del progetto, in completa simbiosi con il suo personaggio, solo il giovane Jack O’Connell, classe 1990, pronto a sollevare sulle sue spalle ogni scena, ogni inquadratura, senza paura di umiliare il suo corpo, di alzare la voce e – all’occorrenza – di tacere.

Il resto fa di Unbroken un’opera piena di buone intenzioni eppure frettolosa, immatura, nata e girata per il grande schermo ma perfetta per il piccolo; il suo mirare costantemente alla lacrima facile, all’emozione a buon mercato, al racconto esagerato la rende pienamente trascurabile.

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