Una donna cammina lungo una strada soleggiata, poco traffico attorno e un motel appena dietro l’angolo. Siamo in America, in California, lungo la zona che costeggia la fascinosa Death Valley. I telefoni hanno una pessima ricezione e il caldo asfissiante mette a dura prova esseri umani e condizionatori d’aria, spinti oltre i limiti. Ad attendere, in una camera non lontano dal primo lungo piano sequenza, un uomo enorme, ingrassato e sfatto, probabilmente malato. Sono un padre e una madre che si rivedono dopo anni e una separazione traumatica, non tanto per loro che hanno ricostruito le proprie vite, per il figlio Michael, che da adulto prende coscienza del vuoto abissale della vita e si suicida ingoiando una manciata di pillole. Solo, senza il suo compagno di vita, abbandonato dalla famiglia per quasi un decennio (presumibilmente per la sua omosessualità, anche se non è esplicito).
Valley of Love, il film
Prima di lasciare questo mondo, scrive e invia con estrema lucidità due lettere distinte ma sostanzialmente simili ai genitori con le quali spiega le sue ultime volontà. I due dovranno non solo ritrovarsi, dovranno anche visitare insieme – in una data precisa – una serie di luoghi in sequenza all’interno della Valle della Morte, il tutto per una ricompensa solenne: rivederlo faccia a faccia, di ritorno dal mondo dei morti. Guillame Nicloux scrive, dirige e dedica al padre un’opera dolorosa e a tratti grottesca, un viaggio intimo e visionario che tenta di analizzare e scavalcare la sofferenza che ogni separazione si porta dietro. Un malessere che colpisce non tanto i genitori coinvolti, che nel loro momentaneo egoismo hanno il solo scopo di allontanarsi, affonda nella miseria i figli, che si scoprono abbandonati nella vastità del vivere.
Il sacrificio di Michael, che nel film si uccide con l’intento di riunire il padre e la madre, capovolge il significato della morte. È così che la famosa Valley of Death diventa la Valley of Love del titolo, la valle dell’amore, un luogo oltre l’umano capace di farci scontrare con i nostri fantasmi, le nostre paure e i nostri insormontabili rimorsi. Talvolta abbiamo così tanta fretta di cambiare le cose, di voltare pagina, da distrarci dall’essenza degli eventi, inciampando nell’errore. Da spettatori, ci ritroviamo costantemente dietro le spalle dei protagonisti intenti a seguirli con attenzione e viva curiosità, anche grazie ad una sceneggiatura ben bilanciata.
Se poi i genitori in questione sono sullo schermo Isabelle Huppert e Gérard Depardieu, di nuovo insieme 41 anni dopo I Santissimi e 35 dopo Loulou, il racconto diventa ancor più appassionato. L’attrice francese è sempre statuaria, capricciosa e severa, capace di fulminare gli elementi con lo sguardo pur conservando – segretamente – una scintilla di dolcezza per chi lo merita. Depardieu, goffo e appesantito, è particolarmente ispirato e colleziona un’interpretazione di spessore come non regalava al suo pubblico (e alla sua carriera) da tanto. Un film tecnicamente semplice, lineare, ma con numerose sfumature e un sottotesto complesso, che nonostante i dialoghi un po’ scarni merita più di una visione per essere compreso a fondo.