Durante gli ultimi vent’anni la Turchia è profondamente cambiata, accelerando un corso di rinnovamento che in superficie si deve al suo primo ministro (prima, per ben undici anni) e presidente (poi, dal 2014) Recep Tayyip Erdoğan. Un uomo tutto d’un pezzo, capace di compiere vere e proprie imprese sul piano economico e di far entrare la sua nazione nell’Europa “che conta”. Dietro la facciata patinata esistono però tanti, tantissimi problemi, così come numerosi segreti e scandali; una libertà di stampa costantemente minacciata, screzi con Siria e Kurdistan, un sistema capillare di spie che genera guerre di quartiere anche violente. Emin Alper, classe 1974 al suo secondo lungometraggio, prova a raccontare quella Turchia nascosta senza mai fare un minimo accenno al suo leader, alla politica, rifugiandosi in un paesino di provincia con le case che cadono a pezzi e le strade di terra e fango.
Nella mente di Kadir,
il protagonista di Abluka (Follia), non
c’è infatti spazio per l’attualità, ha un compito ben preciso da
portare a termine: fare la spia in incognito, in cambio della
libertà condizionale e un’uscita anticipata di prigione. Un’offerta
impossibile da rifiutare, accade così che, mentre recupera
materiali di cassonetto in cassonetto come farebbe un’ape con il
polline di fiore in fiore, riesce a raccogliere informazioni sulla
gente della baraccopoli sino a diventare paranoico persino sul
fratello Ahmet. Anche Ahmet è uno strumento del governo, incaricato
però di eliminare i cani randagi a colpi di fucile, metafora
esplicita e funzionale che paragona gli animali senza padrone agli
oppositori politici del partito reggente. Quella che sembra una
storia lineare, neppure troppo accattivante, è in realtà una guerra
tra poveri feroce, un labirinto fatto di bombardamenti, di ronde di
polizia, di tradimenti, di violenza, in un non-luogo
terrificante in cui ombre nette e riflettori accecanti la fanno da
padrona.
Forte di un montaggio all’apparenza senza regole, eppure profondamente studiato, Abluka inghiotte lo spettatore in una spirale di pazzia visiva e concettuale dalla quale è difficile uscire, scappare; si rimane incastrati nella mente dei personaggi, si diventa a nostra volta paranoici, incapaci di distinguere il reale dall’irreale. Bisogna escludere soltanto la sequenza finale, disarmante, ossessiva, durante la quale il vero riemerge dagli inferi, sbattendoci contro un muro di mattoni messo su alla buona. A rafforzare un’opera già di per se qualitativamente altissima, la fotografia di Adam Jandrup, che spinge sui contrasti e riesce a mettere il freddo nelle ossa e i brividi lungo la schiena. Le fughe notturne sotto il suono delle bombe, con le camionette della polizia che vi braccano, non le dimenticherete facilmente. Figuriamoci il popolo turco, che almeno ora ha una voce.