Come era avvenuto un paio di anni addietro per Push Sky Away con il film 20,000 Days on Earth di  Iain Forsyth e Jane Pollard, un altro filmmaker, Andrew Dominik, torna a raccontare la genesi del nuovo progetto di Nick Cave and the Bad seeeds  Skeleton Tree in un lungometraggio intitolato One More Time With Feeling. Ma non si tratta di un normale processo creativo, perché lo sviluppo di tale progetto musicale e la realizzazione del conseguente film si collocano a poca distanza dall’immane tragedia che ha purtroppo toccato Nick Cave, ovvero la morte del figlio Arthur.

 

Dominik racconta che inizialmente doveva trattarsi della semplice ripresa di una performance live, ma che poi il lavoro  si è a poco a poco trasformato, per volere dello stesso Nick Cave, in una introspezione profonda, in una sorta di elaborazione del lutto in forma cinematografica. Tutto questo è avvenuto naturalmente, quando il regista  ha cominciato a raccogliere materiale e testimonianze  durante la scrittura e la registrazione dell’album, avvolto, come è naturale intuire, in una alone di inevitabile tragicità. Ne è così scaturita una lunga riflessione che vede vagare in un dolente bianco e nero Nick Cave, la moglie Susie, l’altro suo figlio, e soprattutto Warren Ellis, amico sincero e compagno di viaggio di una struggente avventura musicale che dura da  una vita. Tutti sembrano dei sopravvissuti che si aggirano dopo una catastrofe, che attraverso le parole, la musica e le immagini, cercano risposte, o più semplicemente un barlume di forza.

Ne scaturisce un ritratto delicato, unico, di grande impatto visivo ed emotivo, ma soprattutto molto personale, così personale che forse potrebbe addirittura apparire ridondante o superfluo per chi si aspetta dal film un dettagliato servizio di backstage. E’ come se fosse la naturale ma tragica continuazione di  20,000 Days on Earth, ma tra i due film si colloca una maledetta scogliera,  un breve lasso di tempo che si chiude a cerchio attorno a Nick e Susie e che, come lui stesso afferma, li riporterà per tutto la vita sempre indietro, come un elastico.

Anche le canzoni del nuovo album sembrano portare a questo, Cave lascia andare le parole, come sostiene di non aver mai permesso di fare alla sua scrittura, e le lascia correre libere in ipnotici cerchi musicali, in splendide melodie nere nelle quali si aggirano voci femminili, suoni meravigliosi, un limbo di rumori e suggestioni. Su tutto si impone la sua voce che si aggira graffiante e suadente tenuta per mano dai tasti di un pianoforte. Così come si scompone la struttura musicale e la parola, lo stesso avviene per la forma cinematografica; Dominik rifiuta la continuità e il rigore della narrazione, per abbandonarsi a una continua sovversione del concetto spazio-temporale, alla ricerca spasmodica di un punto di rottura e forse di uscita da quell’anello, da quel cerchio, che continuamente e sapientemente sottolinea con eleganti movimenti di macchina. Il film diviene quasi una riflessione wendersiana sul vedere le cose e registrare le immagini, cerca il senso del racconto e scava nelle potenzialità, spesso dimenticate, di un “oggetto” in grado di catturare immagini, suoni e soprattutto emozioni.

Il film è girato in uno splendido 3D, mai gratuito, e in bianco e nero, spezzato a brevi tratti da inserti a colori che ne rafforzano la dirompente valenza espressiva. Crudo, doloroso, toccante. Consigliato solamente a chi ama “King Ink”, o vuole provare ad avvicinarlo in un momento particolare della sua vita e della sua carriera. Astenersi perditempo.

One more time with feeling – trailer del documentario

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