Vip Mio fratello superuomo recensione del film di Bruno Bozzetto

Mio fratello superuomo recensioneAnno: 1968

 

Regia: Bruno Bozzetto

Cast (voci): Oreste Lionello, Lydia Simoneschi, Fiorella Betti, Micaela Esdra, Pino Locchi.

Trama: I VIP sono un genere di super-uomini che difendono il mondo dalle ingiustizie dai secoli nei secoli. Ma l’ultima generazione è stata imperfetta e si compone di due VIP: Supervip, che ha tutti i connotati del supererore e continua la stirpe senza sbavature; e Minivip, che è completamente agli antipodi e l’unico potere che possiede è quello di svolazzare a pochi metri da terra. Sotto una crisi di identià e di inferiorità, Minivip si concederà una vacanza in crociera e da qui cominceranno numerose e imprevedibili avventure, fino allo scontro con una perfida donna che sta sperimentando un sistema per dominare l’umanità.

Analisi: Quello che Bozzetto, fumettista ricordiamolo, è riuscito a fare con Vip – Mio fratello superuomo, è stata la creazione di due facce: la prima è sorridente, se vogliamo è quella che spicca in superficie, dominata dalla poetica atmosfera fumettistica dell’autore; la seconda è più attenta, vicina a riflessioni sul consumismo, sulla capacità di persuadere le menti con i media o con “costrizioni tecnologiche”, fino al tema dello sfruttamento dei più deboli. Del resto, pensiamo anche all’anno in cui è stato prodotto il film: 1968, dunque perfettamente in linea con lo spirito del tempo. Queste due facce riescono sempre a coesistere e anzi si intrecciano, al punto che le situazioni che vorrebbero essere più  possibile “riflessive”, riescono comunque a far ridere. E viceversa.

Mio fratello superuomo recensione 2Quale miglior modo per rappresentare tutto questo, se non disegnare gli impiegati al servizio della temibile Happy Betty, tutti uguali? Non c’è differenza di genere, né jeans o minigonne. Tutti lo stesso sesso, tutti lo stesso vestito. A sottolineare ulteriormente la privazione della personalità, il ridurre l’uomo a nulla più che a un numero di matricola. La potenza dell’immagine in questo senso e qui il fumetto la fa da padrone, è devastante e Bozzetto riesce ad usarla nella sua massima espressione, pur trattandola con leggerezza. Gli impetuosi sguardi totali su queste distsese di uomini tutti uguali fanno sorridere, ma non si scappa dal loro significato.

Consapevole però che un lungometraggio, specie d’animazione, ha anche bisogno di lasciarsi guardare e avvalersi di strutture consolidate, Bozzetto introduce elementi che si discostano dai temi più “nobili” e introduce una duplice storia d’amore, situazioni parodistiche, mini-storie all’interno di quella più grande. Tutti elementi che, sommati, donano corpo al film.

Sono proprio le situazioni portate all’estremo che riescono a far sorridere, ma di un sorriso a mezza bocca. Possiamo dire che Bozzetto riesce ad essere bonariamente cattivo. Il personaggio centrale di Happy Betty, ad esempio, è tiranno: nel suo stabilimento di lavoro si hanno solo pochi secondi per andare in bagno, pena una corposa scarica elettrica; è possibile scegliere il pranzo, ma solo dopo una adeguata “trattenuta dallo stipendio”. Il tutto in nome di un’invenzione che dovrebbe generare dei missili in grado di conolizzare i cervelli umani e orientarli a proprio piacimento. Qualcosa che ricorda 1984 di Orwell o in generale una buona dose di trame dal futuro distopico.

Unendo tutta la causa ad una manciata di gag divertentissime e ad una storia che scorre e quasi scappa via per tutte le minuscole invenzioni che la tengono a galla, Bozzetto ha creato un piccolo gioellino. Le chicche migliori: il comitato d’azionisti e l’aiuto-colonnello Schultz.

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