Michele Placido Nella sua carriera, tra direzione e recitazione, ha collezionato più di cento film. Ha lavorato con i più grandi registi italiani: Monicelli, Comencini, Montaldo, Bellocchio, Lizzani, Citti, Damiani, solo per citarne alcuni. Ha partecipato a progetti diversissimi, passando dall’impegno civile, all’affresco sociale, alla commedia con ammirevole disinvoltura.

 

Ha esordito in teatro, per poi frequentare principalmente cinema e televisione, quella che lo ha portato nelle case di tutti gli italiani, dandogli la maggior notorietà. I risultati del suo lavoro non sono sempre stati felici, ma in tutti i suoi progetti ha sempre messo energia e passione, senza risparmiarsi mai, e ci ha regalato diverse straordinarie interpretazioni e alcuni ottimi film. Stiamo parlando di Michele Placido, classe ’46, radici profonde nel meridione d’Italia – padre lucano di Rionero in Vulture, discendente del brigante Carmine Crocco, e madre pugliese di Ascoli Satriano – romano d’adozione.

La famiglia è numerosa (è terzo di otto figli) e si respira aria dei mestieri più vari: ci sono giornalisti (il cugino del padre Beniamino), un sacerdote (lo zio Padre Alessandro), un insegnante (lo zio Cosimo), mentre il fratello Donato condividerà con lui il mestiere d’attore. Il grande passo è il trasferimento a Roma, dove diventa poliziotto. Ma la sua passione è la recitazione e presto lascia la polizia per iscriversi all’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”. La prima esperienza importante è in teatro, diretto da Gabriele Lavia nel ’70 per una trasposizione dell’Orlando Furioso. Di lì a poco, approda al cinema: è accanto a Monica Vitti e Carlo delle Piane in Teresa la ladra (’73), è diretto da Eriprando Visconti, nipote di Luchino, ne Il caso Pisciotta (’73).

L’anno seguente vede l’incontro col maestro della commedia all’italiana, Mario Monicelli, che lo sceglie nel ’74 per Romanzo popolare, dove è il poliziotto Giovanni Pizzullo, coinvolto in un triangolo amoroso con Ornella Muti e Ugo Tognazzi. Il “Romanzo”, al cui soggetto hanno collaborato Age e Scarpelli, ritrae abilmente la Milano proletaria dell’epoca, ironizzando sui suoi  stereotipi e introducendo temi attuali come quello dell’emancipazione femminile. Sempre nel ’74 avviene l’incontro con Luigi Comencini per Mio Dio, come sono caduta in basso!, che vede Placido accanto a Laura Antonelli. Altri importanti nomi del cinema italiano lo notano e lo scelgono. Nel 1976 lascia la commedia per dedicarsi alla versione cinematografica del romanzo L’Agnese va a morire, diretto da Giuliano Montaldo, ma si distingue soprattutto per la sua interpretazione del giovane soldato Paolo Passeri in Marcia trionfale di Marco Bellocchio, che gli vale i primi riconoscimenti di peso: Nastro d’Argento e David di Donatello come Miglior Attore. Il film, che narra le vicende del giovane Placido/Passeri alle prese col servizio di leva e con il severo superiore Franco Nero/Asciutto, è un’aspra critica al mondo militare e alle sue logiche, ma affronta anche il tema del ruolo della donna in una società machista, e quello dell’omosessualità, altra faccia di questa realtà. Michele Placido tornerà a lavorare con Bellocchio nel 1980 per Salto nel vuoto e nel 1999 per La balia.

Michele Placido, attore vulcanico e regista “ di pancia”

Per quel che riguarda la sfera privata, l’attore in questi anni è legato a Simonetta Stefanelli, e proprio nel ’76 nasce la loro primogenita Violante, che poi seguirà le orme dei genitori, intraprendendo la strada del cinema. Da questa unione nasceranno altri due figli: Michelangelo nel ’90 e Brenno Marco nel ’91, anche lui farà l’attore; mentre un quarto figlio nascerà da una relazione extraconiugale nell’’88.

Negli anni ’70 le collaborazioni con nomi importanti fioccano: nel ’77 lo vuole Lizzani per Kleinhoff Hotel, dramma erotico però poco riuscito, poi Sergio Citti per un ruolo nella divertente commedia corale Casotto. Tratta da un racconto di Vincenzo Cerami, si incentra su un gruppo di villeggianti che a turno utilizzano la stessa cabina della spiaggia di Ostia. La carrellata dei personaggi è comica e grottesca; il cast nutrito ed efficace: si va dalla famiglia in villeggiatura, con Placido nel ruolo del giovane sempliciotto alle prese con una giovanissima Jodie Foster, alle due donne (le sorelle Mariangela e Anna Melato) che per denaro accettano un ambiguo incontro con il facoltoso Cerquetti (Ugo Tognazzi), agli amici in cerca di divertimenti (Gigi Proietti e Franco Citti) e così via, fino a comporre un mosaico policromo che ben fotografa vizi e virtù del nostro paese all’epoca.

Michele Placido La piovraL’anno dopo passa di nuovo dalla commedia al dramma. È infatti la volta di Squitieri, che lo dirige in Corleone. Nel ’79 Placido incontra per la prima volta il regista Damiano Damiani, sotto la cui direzione offre un’intensa interpretazione in Un uomo in ginocchio, dove veste i panni del killer mafioso Antonio Platamone in un complesso rapporto con la sua vittima designata Giuliano Gemma/Nino Peralta, commerciante invischiato suo malgrado in una lotta tra clan. Salvatore Samperi lo sceglie poi per portare sullo schermo il romanzo incompiuto di Umberto Saba Ernesto, incentrato sulle prime esperienze amorose omosessuali di un adolescente ebreo nella Trieste degli anni ’10 e largamente autobiografico. Per la convincente prova attoriale Placido riceve l’Orso d’Oro al Festival di Berlino. Desideroso di cambiare atmosfere e instancabile lavoratore, Placido si dedica alla commedia con Castellano e Pipolo, partecipando a un episodio del loro Sabato, domenica e venerdì (’79).

Nell’ ’80 è di nuovo con Lizzani per portare su grande schermo il romanzo di Silone Fontamara. Ritrova Marco Bellocchio in Salto nel vuoto. Qui il regista, dotato di straordinario acume nell’analisi di universi familiari dominati da rapporti malati, ci presenta la storia di due fratelli: il giudice Michel Piccoli/Mauro Ponticelli e sua sorella Anouk Aimée/Marta. Il protagonista, terrorizzato dall’idea che sua sorella stia impazzendo (c’era stato un caso in famiglia), decide di portarla al suicidio. Per far ciò, le presenta un Michele Placido perfettamente in parte nel ruolo di Giovanni Sciabola, delinquente già istigatore al “salto nel vuoto” di un’altra donna. Ponticelli spera che Sciabola porti al suicidio anche Marta. La manovra però non riesce, e anzi, la sorella ha una relazione con l’uomo e questa le dà il coraggio di allontanarsi dal fratello, cui era legata da un perverso rapporto affettivo. A questo punto sarà Piccoli a suicidarsi. A Cannes Piccoli e Aimée ricevono la Palma d’Oro per la miglior interpretazione, mentre Bellocchio è premiato con il David di Donatello per la sua lucida regia.

In questi anni Michele Placido, approfittando della fama di cui comincia a godere all’estero, varca i confini italiani e si fa dirigere da Walerian Borowczyk in Lulù (1980) e poi in Ars amandi (1983), e dal francese Benoît Jacquot in Les ailes de la colombe (1981). In Italia è scelto da Francesco Rosi per Tre fratelli (’81), pellicola che restituisce, attraverso la storia di Raffaele/Philippe Noiret, Rocco/Vittorio Mezzogiorno e Nicola/Michele Placido, tornati al paesino d’origine per la morte della madre, la complessità della nostra storia recente e racconta la difficoltà di rapporti interrotti. Il film è ben accolto dalla critica e premiato. Lo stesso avviene l’anno dopo per Sciopèn, commedia corale, quasi esordio di Luciano Odorisio (’82), premiata a Venezia col Leone d’Oro. Nell’’85 l’attore pugliese lavora ancora con Damiani, interpretando un killer della mafia in Pizza connection. L’anno prima però, era stato lo stesso Damiani a volerlo per la televisione, ad interpretare il ruolo opposto a quello del film sopra descritto, nella prima serie de La Piovra. Placido vestirà i panni del commissario Cattani fino al 1989. Grazie a questo ruolo raggiungerà un’enorme popolarità. Basti pensare che la serie, andata in onda su Rai 1, faceva registrare una media di 10 milioni di spettatori. Nel frattempo, instancabile, continua a lavorare anche per il cinema e qui, proprio nell’’89 interpreta un altro personaggio molto amato dal pubblico. È infatti insegnante nel carcere minorile Malaspina a Palermo, in Mery per sempre, diretto da Marco Risi e ispirato all’opera autobiografica di Aurelio Grimaldi. Qui Risi trova la sua chiave espressiva, occupandosi di temi forti, radicati nella contemporaneità, come il fenomeno della delinquenza minorile nel sud Italia, di cui indaga moventi, ma che soprattutto fotografa puntualmente, trovando in Placido l’ideale alter ego di Grimaldi.

Negli anni ’90, che si aprono con la nascita del suo secondogenito Michelangelo e proseguono con quella di Brenno Marco, Placido si dedica ancora a un ruolo d’impegno civile: è Giovanni Falcone nell’omonimo film di Giuseppe Ferrara (’93). Poi sarà un faccendiere senza scrupoli accanto a Enrico Lo Verso in Lamerica di Gianni Amelio (’94) e a fine decennio lo vorrà di nuovo Monicelli, che lo lanciò agli inizi, nella commedia Panni sporchi (’99) accompagnato da un nutrito cast, che gli fa incontrare nuovamente (dopo Romanzo Popolare e Casotto) Mariangela Melato, Ornella Muti, Gigi Proietti. Il ’99 è l’anno dei ritorni: lo vediamo infatti in un piccolo ruolo, diretto per la terza volta da Bellocchio, in La balia, protagonisti Fabrizio Bentivoglio e Valeria Bruni Tedeschi, coppia borghese alle prese con la maternità. Gli anni ’90 vedono l’attore di Ascoli Satriano affrontare il divorzio da Simonetta Stefanelli.

Negli anni 2000 si divide ancora tra ruoli impegnati e leggeri. Si inizia con la commedia Liberate i pesci di Cristina Comencini, dove Placido interpreta il boss Michele Verrio, spassosa macchietta. Accanto a lui Laura Morante, Lunetta Savino, Emilio Solfrizzi e Francesco Paolantoni. Si prosegue con l’impegno sociale: nel 2003 è un sindacalista a rischio di licenziamento ne Il posto dell’anima di Riccardo Milani, che l’anno prima lo aveva diretto in una misurata interpretazione nel film per la tv sulla vicenda del sequestro Soffiantini. Mentre l’anno successivo è la volta di una tormentata storia d’amore, dai toni crudi, che vede Michele Placido accanto a Fanny Ardant, diretti da Mario Martone (L’odore del sangue). Partecipa poi a Il caimano di Nanni Moretti (2006) e a La sconosciuta di Giuseppe Tornatore, per ritrovare Monicelli in Le rose del deserto. È di nuovo in un ruolo leggero nel film di Alessandro D’Alatri Commediasexy (2007), mentre torna al dramma interpretando il padre del pianista jazz Luca Flores/Kim Rossi Stuart in Piano Solo, dove è diretto ancora da Riccardo Milani. In questi anni, partecipa anche ad alcune pellicole meno riuscite: SoloMetro di Marco Cucurnia (2006), 2061 – Un anno eccezionale di Carlo Vanzina (2007), Il sangue dei vinti di Michele Soavi (2008).

Fin qui abbiamo parlato di Michele Placido attore, ma un altro capitolo importante della sua storia cinematografica è il lavoro da regista. Dopo aver lavorato al fianco dei più grandi registi italiani, infatti, Michele decide che è arrivato il momento di passare dietro la macchina da presa, per raccontare la “sua” Italia. Lo fa per la prima volta nel ’90 con Pummarò, in cui affronta il tema dell’immigrazione, proprio negli anni in cui i suoi effetti cominciavano a porre importanti questioni al nostro paese. E sarà indiscutibilmente un cinema d’impegno il suo. Nel ’95 dirige con maestria un ottimo Fabrizio Bentivoglio, che interpreta in modo misurato e intenso al tempo stesso l’avvocato Giorgio Ambrosoli, in Un eroe borghese. Il film ricostruisce efficacemente le vicende legate alla morte dell’avvocato, chiamato a gestire la liquidazione del Banco Ambrosiano, e poi fatto uccidere perché non intendeva piegarsi al complicato groviglio di interessi soggiacenti all’affare. Si ricostruisce così una delle pagine buie della nostra storia recente, facendola conoscere alle giovani generazioni e ricordandola alle meno giovani. Tre anni dopo dirige con successo Del perduto amore: ancora alle prese con una ricostruzione del nostro passato, siamo nel 1958, qui racconta la storia di un’appassionata insegnante, Liliana/Giovanna Mezzogiorno, che in un paesino di provincia lucano fa di tutto per assicurare un’istruzione ai ragazzi meno fortunati. Nutrito cast, in cui Michele Placido vuole nuovamente Fabrizio Bentivoglio, oltre a Sergio Rubini, Enrico Lo Verso e Rocco Papaleo. Il film ottiene un buon riscontro di pubblico ed è apprezzato dalla critica.

Per iniziare il nuovo millennio dietro la macchina da presa, Michele Placido sceglie invece una storia d’amore intensa e tormentata: quella tra il poeta Dino Campana e la scrittrice Sibilla Aleramo, interpretati da Stefano Accorsi e Laura Morante. Anche qui affresco d’epoca (siamo negli anni ’10), con accenti più sentimentali e due interpretazioni vibranti. Ovunque sei (2004) rivela limiti e non è all’altezza dei precedenti e dei seguenti.

Nel 2005 il grande successo, con Romanzo criminale. Qui il regista raccoglie l’ennesima sfida e non rinuncia alla sua passione: raccontare l’Italia in tutta la sua complessità, anche le pagine più oscure. Prende spunto dal romanzo omonimo di De Cataldo, che collabora alla sceneggiatura assieme a Rulli e Petraglia, vuole nel cast i più talentuosi attori italiani di questi anni – Pierfrancesco Favino/il Libanese, Kim Rossi Stuart/il Freddo, Claudio Santamaria/ il Dandi per interpretare i componenti della banda della Magliana e Stefano Accorsi nel ruolo dell’ispettore Scialoja che dà loro la caccia. È appunto una storia romanzata, non una ricostruzione cronachistica. Il film suscita polemiche da parte di chi teme l’identificazione con questi eroi negativi. È forse un film scomodo anche perché, come sempre nella filmografia di Placido regista, al di là delle gesta dei criminali protagonisti, presenta un paese lacerato e corroso dall’interno da interessi e poteri occulti, che ne determinano le sorti. Questi poteri finiscono per fagocitare e strumentalizzare anche la banda, il che non la assolve certo dagli efferati crimini commessi, ma fa percepire a chi guarda un altro livello di lettura, più complesso, e altrettanto importante. Michele Placido rivendica l’impegno civile e la volontà di destare curiosità su quel periodo storico, da parte delle giovani generazioni. Tutte perfettamente in parte le interpretazioni degli attori. Direzione sapiente e dinamica da parte di Placido, che non fa mai perdere l’interesse allo spettatore. I premi arrivano copiosi. Sette Nastri d’Argento, tra cui Miglior Film, Migliori Attori Favino, Rossi Stuart, Santamaria; dieci David di Donatello che premiano, tra l’altro, ancora Favino, la sceneggiatura e la fotografia di Luca Bigazzi. Il successo di pubblico è tale che il film viene ottimamente venduto all’estero e in Italia ne viene tratta una fortunata serie televisiva. L’anno successivo Placido ha il suo quinto figlio, Gabriele, con la sua nuova compagna, Federica Vincenti.

Il 2009 vede il regista portare sullo schermo una storia ispirata alla sua gioventù. Ne Il grande sogno, infatti, il personaggio di Riccardo Scamarcio, poliziotto coinvolto nelle lotte studentesche degli anni ’60, alle prese con i suoi dubbi in un’Italia che cambia, è alter ego di Placido. Il 2011 invece è l’anno di Vallanzasca – Gli angeli del male. Nei panni del protagonista, Kim Rossi Stuart, scelto per interpretare questo difficile ruolo. È infatti, come lo ha definito lo stesso regista, un viaggio attraverso il male, un male che però è necessario conoscere, che è in Renato Vallanzasca – criminale, assassino, colpevole con la sua banda di rapine, sequestri e omicidi nella Milano degli anni ‘70 e ’80 – ma ci fa riflettere su quella parte di male che è in ognuno di noi, e parallelamente ci mostra come in ogni criminale ci sia anche un lato umano, perché ognuno è luci e ombre e non esiste il male assoluto. La regia di Placido è istintiva e viscerale, «di pancia», come ha dichiarato Filippo Timi in una recente intervista (nel film è Enzo “fratellino” di René). Ritmo veloce e incalzante, ampi spazi d’improvvisazione per gli attori, un ruolo da co-sceneggiatore per l’ottimo Rossi Stuart, che sfoggia tra l’altro un perfetto accento milanese.

Il film ha partecipato fuori concorso alla 67° Mostra del Cinema di Venezia, accolto freddamente dalla platea, e preceduto da molte polemiche, oltre che da una lettera indignata da parte dell’Associazione che raccoglie i familiari delle vittime. Ancora una volta Michele Placido ci restituisce qui la sua visione complessa e problematica della realtà italiana, raccontata con passione autentica. E l’obiettivo, come sempre dovrebbe darsi nell’arte, è quello di suscitare riflessioni, dibattiti, domande, in ogni caso mettere in moto qualcosa, innescare un meccanismo virtuoso di conoscenza. Anche stavolta il regista pugliese l’ha raggiunto.

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