New York City non è un semplice set a cielo aperto, suggestivo, caotico e babilonico. New York è uno “stato della mente”, una condizione emotiva, generazionale, sentimentale che affligge chi ci vive e chi aspira a stabilirsi lì. Figuriamoci chi c’è nato, come Noah Baumbach, di Brooklyn, uno dei cineasti indipendenti più promettenti dell’ultimo decennio- insieme a Wes Anderson, col quale ha spesso collaborato- che cerca fin dai suoi esordi cinematografici di inserire nei propri lavori un’auto- riflessione profonda sul proprio mondo e sui personaggi che lo popolano, frugando tra i suoi ricordi.
Mistress America, il suo ultimo lavoro, è l’erede di una lunga tradizione di commedie sentimental- nevrotiche ambientate della grande mela, ispirato ai film anni ’80 sulla scia di Cercasi Susan Disperatamente o Qualcosa di Travolgente, aggiornato però in chiave 2.0 al linguaggio di Twitter, dei social, della crisi economica e del default.

L’interessante accostamento compiuto dalla Gerwig e da Baumbach con il romanzo cult di Fitzgerald Il Grande Gatsby è quanto mai opportuno: come Nick Carraway e Jay Gatsby, anche Tracy in un primissimo momento rimane affascinata da questa donna, una sorta di proiezione di cosa potrebbe diventare in fieri nella sua vita se solo riuscisse a capire davvero che strada seguire, trovando il coraggio necessario. Ma solo conoscendola in modo approfondito capisce che non tutto è come sembra, e che la vita patinata e rutilante che Brooke ha costruito intorno a sé altro non è che una bolla, un porto- franco sicuro in cui approdare per ripararsi dall’esistenza. Ognuna delle due donne aiuta l’altra ad emergere dal proprio guscio, ad elaborare il proprio dolore e le paure che nascondono, affrontando l’esistenza e tutti gli imprevedibili cambiamenti disseminati lungo il cammino che le aspetta.

