Festival di Roma 2014: Tre Tocchi recensione

Marco Risi, dopo aver affrontato i più disparati territori cinematografici torna ad esplorare la commedia- dopo le sue incursioni in salsa pulp negli anni ’90, ricordiamo L’ultimo Capodanno- realizzando l’equilibrato Tre Tocchi.

 

Tre TocchiIl titolo fa riferimento al gergo calcistico, lo sport che accomuna i sei protagonisti della pellicola. L’altro fil rouge che li unisce e la recitazione: tutti cercando di sfondare in qualche modo, senza farsi sopraffare dalle delusioni, dalla rabbia, dalla tristezza e dalle angherie della vita stessa. Sulla scena si muovono Gilles, il bello da fotoromanzo, bello e amato dal pubblico delle ragazzine urlanti, che copre dietro la sua spavalderia delle insicurezze talmente profonde che lo spingono a cadere nel baratro della cocaina e nelle cattive frequentazioni; c’è Vincenzo, che cova all’interno di sé una rabbia ed un dolore sordo dovuti alla malattia del padre e alle delusioni professionali, che lo portano a sfogarsi attraverso il sesso e una brutalità immotivata; Leandro, il più grande del gruppo, torna dopo anni nella sua Napoli, dalla quale era scappato per evitare un passato oscuro che continua a perseguitarlo, ma dal quale cerca di affrancarsi; lo stesso accade per Max, frustrato per via di una carriera bloccata dopo un buon inizio, che torna nella sua terra- la Basilicata- e non sa se cedere al dilemma morale di sposare la ricca figlia di un albergatore; infine ci sono Antonio ed Emiliano: il primo è un giovane attore appena uscito dall’Accademia, uno che si sta affermando a teatro anche grazie alla frequentazione con un’anziana attrice più grande di lui, in cerca del ruolo della sua vita; l’altro, forse, è il vero perdente del gruppo, l’unico che cede a piccole lusinghe e compromessi per rimanere sulla cresta dell’onda del patinato mondo dello spettacolo.

La storia che Risi sceglie di raccontare contiene in sé degli spunti interessanti, a partire dalla pluralità del racconto: sei storie che si intersecano tra loro, sfiorandosi senza mai incontrarsi definitivamente, con l’unico filo conduttore del gioco più amato dagli italiani, il calcio. Interessante è anche la scelta di utilizzare una narrazione meta- cinematografica: raccontare il cinema attraverso l’occhio indiscreto del cinema, che segue silenziosamente le vicende dei personaggi spiandoli, come un voyeur. Ma queste ottime premesse di partenza vengono vanificate nel corso della narrazione: i protagonisti, sulle cui spalle dovrebbe reggersi il peso del film, non hanno una forza- e una presenza- tali e rimangono vittime del controsenso logico supremo per un film del genere: si vede che stanno recitando una parte, seguendo pedissequamente un copione. La trama non è forte abbastanza da reggere al peso della coralità, e crolla inesorabilmente come un castello di carte spinto dal vento. I personaggi, invece di essere costruiti in un modo complesso o sfaccettato, si appiattiscono inesorabilmente sui cliché del genere senza mostrare uno sprazzo di originalità. L a parata di star e starlette in ruoli minori distoglie solo l’attenzione dello spettatore dalla labile storia.

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