“Ciò che vediamo ora non è che una pallida immagine in uno specchio. Presto il velo cadrà e noi vedremo!”. Tutto ebbe inizio nel lontano 1989, quando il fumettista giapponese Masamune Shirow realizzò Ghost in the Shell, manga da lui scritto e disegnato. Sei anni più tardi, precisamente nel 1995, lo scrittore e regista giapponese Mamoru Oshii – reduce dal grandissimo successo del progetto multimediale Patlabor – concepì il film destinato a cambiare per sempre non solo le regole scritte dell’animazione tradizionale (che per la prima volta andava a fondersi con la computer animation) ma anche ad influenzare la successiva ondata di cinema fantascientifico d’azione – da Matrix delle Wachowski alle più recenti opere di grandissimi autori quali Spielberg e Cameron – dove il cyberspazio e la realtà simulata creata dalle macchine la fanno da padrona.
Ghost in the Shell recensione del film di Mamoru Oshii
Ghost in the Shell, primo anime ad essere presentato alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (nel 1996), non ha solo contribuito a porre le fondamenta per la costruzione di un universo cinematografico che si serve di un genere – la fantascienza – per restituire allo spettatore una visione tragica e pessimistica del mondo (in cui il singolo individuo viene privato ogni giorno di più della sua individualità), ma ha anche permesso che tutte quelle riserve e quei preconcetti nei confronti dell’animazione nipponica da parte del pubblico occidentale venissero definitivamente annullati (operazione riuscita non solo grazie all’opera di Oshii, ma anche al lavoro di altri maestri come Katsuhiro Otomo e Hayao Miyazaki).
Ambientato nel 2029 a New
Port City (Giappone) in un mondo a metà fra l’universo di
Blade Runner (1982) e quello di
Akira (1988), Ghost in the Shell
è un’opera essenziale nella sua durata (appena 82 minuti) ma
complessa nella struttura e tanto macchinosa quanto affascinante
nella vastità delle tematiche che affronta. Il ritmo sostenuto che
contraddistingue la creatura di Oshii avvolge lo spettatore in un
algida membrana dove il tempo sembra fermarsi e pare ci sia spazio
per concentrarsi esclusivamente sulle profonde riflessioni di tipo
religioso-filosofico che la sceneggiatura firmata da
Kazunori Ito fa emergere per comporre un mosaico
contenutistico dal valore incontestabile. L’ingannevole percezione
del reale, la deriva del progresso tecnologico, il concetto di
identità e di “essere” al quale l’individuo si sente
intrinsecamente legato sono questioni analizzate con inquietante e
seducente lungimiranza, che si insinuano nella splendida
caratterizzazione di Motoko Kusanagi, il cyborg
protagonista della storia (vero e proprio precursore dell’immagine
dell’eroina animata – o in carne ed ossa – sul grande
schermo) e che si amalgamano insieme alla perfezione anche grazie
alle solenni musiche composte da Kenji Kawai.
Al di là del genere di appartenenza che sia in grado di descriverne la natura autentica nel miglior modo possibile (animazione, poliziesco, fantascienza, cyberpunk), è indubbio che Ghost in the Shell travalichi la mera definizione di prodotto d’intrattenimento (nonostante le sequenze d’azione frenetiche e concitate) per configurarsi come opera matura e di non semplice fruizione, che oltre ad aver precorso la narrativa della recente storia del cinema sci-fi, è riuscita a guadagnarsi un posto d’onore nella schiera dei film più apprezzati dai cultori dell’animazione (non solo) giapponese.
Ghost in the Shell
Sommario
Ghost in the Shell travalica la mera definizione di prodotto d’intrattenimento per configurarsi come opera matura e di non semplice fruizione.