La foresta dei sogni: recensione del film con Matthew McConaughey

La foresta dei sogni

Ad Aokigahara, in Giappone, esiste un luogo fuori dal tempo conosciuto in ogni angolo del Pianeta. Una foresta ormai famosa e decisamente macabra che accoglie chi ha deciso di mettere fine alla propria vita; è facile infatti – addentrandosi fra la vegetazione – trovare costantemente cadaveri fra gli arbusti, tende abbandonate, scheletri con ancora i vestiti addosso. Ovviamente anche messaggi di addio, fotografie, pupazzi e diari. La cosiddetta Foresta dei Suicidi (nel film La foresta dei sogni) è diventato un caso persino per il Governo locale, che ha fatto installare telecamere per controllare gli accessi, torrette di guardia, ha creato squadre di soccorso che operano senza sosta, ha piazzato cartelli che recitano “Non si è mai soli in vita, pensate ai vostri cari, affrontate le difficoltà insieme agli altri. Tornate a casa” e altre frasi di sorta, nella speranza di salvare qualche anima in pena.

 

Per saperne di più, e prepararsi alla visione di La foresta dei sogni, esiste su internet un piccolo interessante documentario che racconta perfettamente il mood del posto. Un luogo sterminato, incontaminato e selvaggio che Gus Van Sant sfrutta per raccontare l’animo travagliato di Arthur, un cittadino americano deciso a morire poiché divorato dal senso di colpa. Colpa per un matrimonio gestito male, per il suo profondo egoismo, per la perdita di ogni ragione di vita. Aiutato dalla fotografia potente di Kasper Tuxen, il regista americano monta in modo alternato gli ultimi anni del suo personaggio in Massachussetts e la lotta per la sopravvivenza nella natura violenta, poiché qualcosa o qualcuno riesce a fermare la mano determinata di Arthur.

Le atmosfere estremamente suggestive e profondamente radicate nella cultura spirituale giapponese, che considera la foresta di Aokigahara come un purgatorio nel quale le anime sostano per accedere a qualcosa di superiore, avrebbero tutte le carte in regola per un film pregno di significato e simbolismo. Peccato però che qualcosa, nella scrittura, non abbia funzionato: si assiste a una messa in scena patetica e lacrimosa, appesantita da una miriade di clichés che creano fastidio e imbarazzo.

Il premio Oscar Matthew McConaughey è anche bravo a gestire il suo personaggio durante la prima fase, ma poi anch’esso crolla sotto i colpi sferzanti del ridicolo, andando verso un finale catastrofico e scontato degno della peggiore televisione del pomeriggio. Non lo aiutano una Naomi Watts sterile e un Ken Watanabe ingessato, privo di sfumature. Tutti elementi che il Festival di Cannes 2015, dove La foresta dei sogni è stato presentato in Concorso, non ha perdonato e ha sommerso la proiezione della stampa internazionale di fischi pesanti come macigni. Anche gli ottimi propositi del sottotesto, che mirano a dare una speranza a chi sta affrontando l’elaborazione di un lutto, passano purtroppo in secondo piano, se non in terzo. Adieu monsieur Van Sant.

 

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