Quando una storia
semplice viene raccontata attraverso un virtuosismo stilistico di
grande rigore e pregio artistico, anche i momenti più banali e
comuni della giornata diventano piccoli punti chiave per far
procedere una narrazione basata sulla levità del passo, della
parola e delle storie di quotidianità.
Una giornalista israeliana di religione mussulmana, si reca in un quartiere di Gerusalemme per realizzare un reportage. Qui entrerà in contatto con varie persone del posto, tra cui alcuni anziani, restando sempre più colpita dalle loro storie.
Ana
Arabia di Amos Gitai è stato
presentato in Concorso alla 70esima edizione della Mostra d’Arte
Cinematografica di Venezia, riscuotendo consensi e applausi
principalmente perchè il film, 84 minuti, è costituito da un unico
piano sequenza che si snoda all’interno di un cortile su cui
affacciano le abitazioni di una famiglia allargata nel cuore di
Gerusalemme. La protagonista, una bellissima Yuval
Scharf, tiene in piedi la storia, costituendo, forse suo
malgrado, il punto d’incontro, il destinatario prediletto di tutti
i racconti messi in piazza dagli abitanti di questo microcosmo
cittadino, che racchiude in sè tutte le caratteristiche di una
comunità autosufficiente.
Con maestria ed eleganza, rivelando anche un grande talento per la gestione dello spazio e la scelta della location, Gitai si immerge in vicoli e cortili, entrando in case estranee che piano piano diventano note e così, insieme alla protagonista, anche noi diventiamo padroni dello spazio, della realtà che lo circonda e su cui si affacciano le casette basse dei protagonisti.
Un vero e proprio saggio di regia, Ana Arabia trova però un punto debole nell’appeal che le storie raccontate hanno sul pubblico: blande, con poche eccezioni, e forse non abbastanza coinvolgenti da rendere il film un capolavoro.