Nel 1937, all’apice delle purghe staliniane, la giustizia diventa un paradosso e la burocrazia si fa strumento di annientamento. A Cannes 78, il documentarista Sergei Loznitsa sceglie di tornare al cinema di finzione per raccontare una storia dimenticata — o forse mai davvero ascoltata — attraverso Two Prosecutors, un film rigoroso, crudele e spietatamente attuale. Tratto dalla novella omonima di Georgy Demidov, fisico e prigioniero politico del regime sovietico, il film mette in scena il tentativo, tanto ingenuo quanto tragico, di cercare la verità in un mondo costruito per impedirla.
La vera prigione è l’attesa
Il protagonista è Alexander Kornyev (Aleksandr Kuznetsov), giovane procuratore appena nominato in una provincia remota. Idealista, preparato, determinato, Kornyev si imbatte in una lettera proveniente da una delle tante prigioni dell’URSS: un detenuto accusa l’NKVD di torture, arresti arbitrari e false confessioni. Mentre centinaia di richieste simili vengono distrutte ogni giorno, quella lettera — scritta col sangue — sorprendentemente viene letta. E Kornyev, anziché ignorarla, decide di agire. Inizia così un viaggio fisico e mentale tra corridoi chiusi, interrogatori opachi, incontri ambigui e continui rinvii. A ogni passo si scontra con l’apparato stesso che dovrebbe rappresentare, mentre il sistema lo guarda con diffidenza, lo mette alla prova, cerca di farlo desistere. Non è l’eroe di un thriller, ma il testimone tragico di un fallimento annunciato.
Loznitsa struttura il film come una lunga camera di decompressione. La messa in scena è minimalista, quasi teatrale, dominata da inquadrature fisse, composizioni simmetriche, ambienti spogli, silenzi pesanti. Ogni scena è costruita come un duello verbale, ma i dialoghi — spesso reticenti, circolari, dominati dalla paura — sembrano sempre sfuggire alla logica. La tensione non è affidata all’azione, ma al vuoto, all’attesa, alla sensazione che ogni parola detta possa avere conseguenze devastanti.
Il ritmo volutamente dilatato, l’assenza di musica e la scelta di colori desaturati contribuiscono a creare un’atmosfera plumbea, dove lo spettatore viene risucchiato nella medesima trappola sensoriale e morale in cui si dibatte il protagonista. La prigione in cui è ambientata buona parte del film — un ex carcere di Riga costruito nel 1905 e chiuso solo di recente per condizioni disumane — è più che un set: è un corpo vivo, impregnato di sofferenza, e la sua fisicità opprime anche quando non la si vede.
Uno sguardo che inchioda
Two Prosecutors non è il racconto di una scoperta, ma di una presa di coscienza. A metà narrazione, quando Kornyev comprende che il sistema stesso si sta richiudendo su di lui, ogni velleità di giustizia si trasforma in una lenta agonia morale. Come dichiarato dallo stesso regista, il film è attraversato dalle ombre di Gogol e Kafka, ma anche dalla consapevolezza contemporanea che la storia non è affatto finita. Il film è ambientato nel 1937, ma parla con chiarezza al presente: mostra come i sistemi autoritari distruggano i loro stessi ideali, divorando i “veri credenti”, come Kornyev. Lo fa senza moralismi né didascalie, lasciando che sia la forma stessa del film a incarnare l’oppressione.
A completare il quadro c’è un cast corale, internazionale, composto da attori provenienti da Lituania, Lettonia, Israele e altri paesi dell’ex blocco sovietico, molti dei quali hanno lasciato la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina. La loro partecipazione non è solo una scelta artistica, ma anche una testimonianza di resistenza culturale e politica. La fotografia di Oleg Mutu, già collaboratore di Loznitsa in diversi film, è rigorosa fino all’astrazione. Nessuna camera a mano, nessun movimento: solo l’immobilità di uno sguardo che osserva, inchioda, documenta.
Two Prosecutors non è un film per tutti. Richiede pazienza, attenzione, disponibilità al silenzio e alla complessità. Ma è proprio in questa scelta radicale — nella rinuncia a ogni scorciatoia narrativa o emotiva — che risiede la sua forza. Loznitsa ci mette di fronte a un interrogativo che, oggi più che mai, non possiamo evitare: quanto siamo davvero liberi di parlare, di agire, di comprendere ciò che ci accade? E cosa accade quando il linguaggio stesso viene sequestrato dal potere?
Two Prosecutors
Sommario
Con Two Prosecutors, Sergei Loznitsa firma un’opera austera e potente, che trasforma una vicenda individuale in un’allegoria universale dell’oppressione. Attraverso uno stile formale rigoroso, dialoghi sospesi e un uso magistrale del silenzio, il film denuncia l’assurdità del potere totalitario e la solitudine di chi prova a resistergli. Un racconto senza tempo che parla in modo inquietante al nostro presente.