Oggi a Roma il neo nominato agli Oscar
Alexander Payne ha incontrato la stampa per presentare il suo film
Paradiso Amaro. Ecco cosa ha raccontato.Si aspettava le 5 nomination agli Oscar
per questo film?
A.P.: Non posso dire che me le aspettavo, però sicuramente avevo
dei sospetti. Devo dire che immaginavo che ne avrei ricevuto 3, 4,
anche 5, soprattutto dopo i Golden Globe, che sono un’indicazione
per gli Oscar. Queste candidature mi rendono molto felice, anche
perché sono accanto ad altri grandi registi che stimo molto come
Scorsese, Woody Allen o Michel Hazanavicius dalla Francia.
Nei suoi film, ama confrontare i protagonisti con eventi
difficili, luttuosi. Cosa c’è in questo tipo di eventi che la
colpisce così tanto?
A.P.: Credo che questa sia la condizione di vita di gran parte di
noi. Le opere più valide sia in campo cinematografico che
letterario o teatrale, mettono sempre al centro una persona comune
in una situazione difficile. Io non faccio eccezione in questo.
Quindi rifletto la mia generazione, il mio essere americano, nel
far misurare i miei protagonisti con situazioni difficili, ma anche
comiche. La mia fortuna è stata che grandi attori come Nicholson,
Giamatti e Clooney hanno interpretato i miei personaggi.
Cosa può dirci delle location del film? Come è stato
girare alle Hawaii?
A.P.: Uno dei motivi che mi ha spinto a girare il film è stata
proprio l’ambientazione hawaiana. E non per i motivi che uno si
aspetterebbe, ovvero il clima, la natura, il sole e il mare, ma
perché è un posto unico da un punto di vista sociale e culturale.
L’unicità di questa tradizione culturale è dovuta alla
consapevolezza che ogni hawaiano ha delle proprie radici e della
propria discendenza. Questo discorso vale non solo per l’alta
aristocrazia bianca, alla quale appartiene il protagonista di
questo film, ma anche per i nativi. Le Hawaii sono un piccolo stato
a sé, sui generis, molto remoto, nel mezzo del Pacifico e per
questo è molto provinciale, ma al tempo stesso anche molto
cosmopolita, grazie ai molti turisti che vi si recano ogni
anno.
Nei suoi film riesce sempre a tirare fuori il meglio dei
grandi attori che vi partecipano. Come ci lavora? Quale scambio ha
con loro?
A.P.: Sicuramente loro sono delle grandi star, ma al tempo stesso
sono dei grandi attori. Questo fa in modo che quando accettano di
lavorare ad un mio film, sanno che io voglio da loro un estremo
realismo, perché ciò fa parte del tipo di film che faccio io.
Quindi sanno che lavoreranno in un film che rispecchia più la
realtà che non il glamour di certe produzioni di Hollywood. Io mi
dimentico del loro lato di star e me ne rendo conto solo durante le
interviste o leggendo le recensioni.
La qualità migliore della sua regia è la classicità e il
realismo. Quale legame ha con il cinema europeo?
A.P.: Mi piacciono i registi classici, la narrazione classica,
soprattutto dei film americani fino agli anni ’80. Devo dire che
non conta lo stile, conta la sincerità nell’adottare quello stile.
La cosa più importante, infatti, penso sia far emergere il proprio
stile con sincerità. Io sono un regista americano che lavora con un
determinato budget, quindi devo lavorare con un determinato stile.
Se fossi stato cecoslovacco, avrei avuto un altro stile. Dei
registi europei adoro il modo di raccontare le storie.
Nel film è presente anche il tema dell’eutanasia. Qual è
la sua opinione a riguardo? Conosce il dibattito su questa tematica
che c’è stato in Italia qualche anno fa?
A.P.: E’ una domanda che ho ricevuto anche a Torino, qualche mese
fa, al Festival. Negli U.S.A. il testamento biologico è stato
semplicemente accettato, e anche io lo trovo una cosa normale. In
realtà, non so quante polemiche ci saranno in Italia, vi posso dire
che io, almeno una volta al mese, ho qualcuno che mi dice: “Sparami
se dovesse succedermi una cosa del genere”.
Se non fosse in gara, quale sarebbe il suo film favorito
per gli Oscar?
A.P.: Ho adorato “A separation”, il film iraniano e penso che
avrebbe meritato anche la candidatura come miglior film, non solo
per quella per il film straniero.