Aftersun: recensione del film con Paul Mescal

La recensione di Aftersun, debutto alla regia di Charlotte Wells e con protagonista Paul Mescal, presentato alla Festa del Cinema di Roma.

Un frame di Aftersun

Con Aftersun, debutto registico delicato nella messa in scena ma esplosivo nella sua introspezione, Charlotte Wells aggiunge un tassello degno di nota alle produzioni targate A24. Presentato ad Alice nella città, dopo il passaggio al Festival di Cannes 2022 in una sezione parallela, oltre ad altri festival indipendenti, il film di Wells restituisce la complessità del rapporto padre-figlia, affidandone l’indagine alla funzione spettatoriale: tra ricordi effettivi e manipolazioni volontarie, Paul Mescal e l’esordiente Frankie Corio ci guidano alla ricerca di un qualcosa che vorremmo sapere ma di cui riconosciamo l’inafferrabilità.

 

La vacanza in cui vive il ricordo

Durante una vacanza in Turchia, l’undicenne Sophie fa tesoro del tempo che trascorre con il padre amorevole e idealista. Vent’anni dopo, una Sophie adulta ricorda la loro ultima vacanza insieme e cerca di comprendere la distanza tra il padre e l’uomo che non ha sempre conosciuto.

Due strade che si sono, in un qualche modo, separate si aprono a molteplici letture da parte dello spettatore. Di solito, quando cerchiamo di ricordare cerchiamo anche di capire, e ricordare le persone significa anche cercare di capire cosa siamo diventati. Sophie è in un momento della sua vita in cui deve tornare alla memoria di suo padre per capire cosa significhi davvero essere genitore e, forse, cercare di guarire alcune ferite del passato. Allo stesso tempo, potrebbe anche trovare sollievo in quel ricordo. Non sappiamo quali ricordi siano effettivamente aderenti alla realtà di ciò che è accaduto e quali no, perché è la stessa narratrice ad essere inaffidabile, a manipolare l’intera narrazione. L’immagine del padre è spesso sfocata, sono molti i frangenti in cui Sophie vede il suo profilo attraverso uno specchio: ora l’adulta è lei, il compleanno è il suo, e forse ha capito per la prima volta cosa significa essere una donna proprio nella vacanza in Turchia col padre.

Aftersun: cercare la presenza nell’assenza

Padre che sicuramente aveva a che fare con demoni interiori, con una sofferenza lontana dalla comprensione di una bambina ma non dai suoi occhi. Eppure, a Sophie non è mancato nulla durante le vacanze in Turchia, sceglie di ricordarsi la presenza, non l’assenza: anche se la memoria è offuscata e non sapremo mai veramente cosa è successo oltre quelle circostanze, c’è una specificità in quel ricordo, a cui Sophie ha bisogno di aggrapparsi.

Non importa come sia avvenuto il distacco: il film potrebbe funzionare perfettamente anche se il padre di Sophie fosse morto serenamente a novanta anni, lasciandone intatta l’universalità del messaggio. Quando lasciamo andare qualcuno, c’è sempre una porzione di spazio in cui cerchiamo di capire chi abbiamo perso e di trovare un senso dove in realtà sappiamo che non ne troveremo.

Con un Paul Mescal sempre più lanciato nei ruoli dalla forte carica drammatica e una giovanissime esordiente che lascia senza parole, Aftersun procede per frammenti, trova nelle ellissi narrative e nelle cesure di montaggio la propria vena stilistica, che non è facile da accettare: in tanti frangenti vorremmo sapere molto di più, vorremmo andare oltre, ma siamo costretti a fermarci alle modalità di comprensione di una bambina, perché certe parti del ricordo devono rimanere intatte, per proteggerci dalla consapevolezza della realtà adulta in cui, durante il processo di crescita, ci troviamo immersi.

Sotto lo stesso cielo, nel ricordo

Racconto che potrebbe assumere e suddiversi nella forma di polaroid, istantanee dal valore sempreterno anche nel presente, Aftersun cerca di andare addirittura oltre quello che Sophie ricorda o vorrebbe ricordare, provando a soddisfare le esigenze dello spettatore di carpire qualche dettaglio in più, che il nostro bambino interiore potrebbe avere lasciato da parte. Ci abbandoniamo all’umana tentazione di voler comprendere l’inconoscibile e Wells sfrutta ogni mezzo a suo favore, soprattutto fotografia e montaggio, per enfatizzare l’angosciante senso di disperazione che porta con sè il tempo in cui chi abbiamo perduto era ancora chi ci ricordavamo fosse.

Resta solo la nostra “little mind camera”, in cui abbiamo registrato ciò che i cicli della vita non possono scalfire: gli attimi in cui gioia e dolore si compenetrano, in cui proviamo a lasciare andare con serenità nella difficoltà di un abbraccio che è anche il provare ad agguantare definitivamente l’unica forma di conoscenza possibile tra passato e futuro: il ricordo.

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