C’è qualcosa di profondamente necessario in La camera di consiglio, il nuovo film di Fiorella Infascelli, presentato nella sezione Freestyle della Festa del Cinema di Roma e in uscita il 20 novembre con Notorious Pictures. Dopo anni di cinema che ha guardato alla mafia come a un tema di superficie, Infascelli sceglie di tornare al cuore della questione: la responsabilità. Non quella del criminale, ma quella di chi deve giudicarlo. Il film racconta la camera di consiglio più lunga della storia giudiziaria: trentasei giorni di isolamento in cui otto giurati, chiusi in un appartamento-bunker all’interno del carcere dell’Ucciardone di Palermo, dovettero decidere condanne e assoluzioni per 470 imputati del Maxiprocesso.
Ambientato alla fine degli anni Ottanta, La camera di consiglio si muove dentro una dimensione sospesa, dove la tensione storica del Maxiprocesso si intreccia con la dimensione privata, umana e morale dei protagonisti. È un film che lavora sul tempo e sull’immobilità, sull’eco delle decisioni e sul peso della parola “giustizia”.
La sceneggiatura, firmata dalla stessa Infascelli insieme a Mimmo Rafele e con la collaborazione di Francesco La Licata, si avvale della consulenza di Pietro Grasso, che di quella camera di consiglio fu testimone diretto come giudice a latere del Maxiprocesso. Il risultato è un racconto che possiede il rigore della ricostruzione storica e la tensione del dramma morale. Non un film “di mafia”, ma un film sulla democrazia, sull’atto più difficile del vivere civile: giudicare.
La camera di consiglio, un teatro chiuso dove si decide il destino
Girato interamente in interni, La camera di consiglio adotta un’impostazione scenica quasi teatrale, nella quale i confini dello spazio coincidono con i confini della coscienza. La macchina da presa esplora ogni angolo dell’appartamento-bunker, restituendone la pesantezza e l’aria satura, mentre la luce filtra come un respiro difficile, mai completamente libero. In questa cornice, gli attori si muovono come figure costrette a confrontarsi non solo con la legge, ma con sé stesse. Ed è in questo secondo faccia a faccia che la regista riesce a trovare anche della leggerezza.
Sergio Rubini, nei panni del Presidente della giuria, è il fulcro del racconto: il suo personaggio incarna la lucidità, il rispetto per il principio di legalità, la resistenza alla tentazione emotiva. Il suo sguardo è quello di chi cerca di rimanere fedele alla ragione in un contesto dove la pancia, l’istinto e la rabbia potrebbero sembrare vie più facili e in qualche modo giustificate. È inevitabile il rimando a La parola ai giurati: come Henry Fonda, anche Rubini porta sullo schermo un’idea di giustizia che non è vendetta, ma responsabilità. Accanto a lui, Massimo Popolizio nel ruolo del Giudice a latere rappresenta il contraltare, la voce della legge che deve restare ferma anche quando la pressione morale diventa insostenibile.
Il film si nutre della forza del suo cast corale: Betti Pedrazzi, Roberta Rigano, Anna Della Rosa, Stefania Blandeburgo, Rosario Lisma e Claudio Bigagli danno vita a un gruppo eterogeneo di giurati, ciascuno portatore di una propria storia, di un proprio conflitto interiore. L’opera di Infascelli non li usa come funzioni narrative, ma come coscienze in movimento, che si osservano e si scontrano in un continuo processo di ridefinizione.
Ciò che colpisce è la precisione della regia: la macchina da presa non invade mai, osserva, ascolta, accompagna accentuando l’impianto teatrale del film. L’isolamento è palpabile e il tempo si dilata, diventando quasi un personaggio. Infascelli costruisce un ritmo ipnotico, dove la tensione non esplode, ma cresce per stratificazione. Le pareti dell’Ucciardone diventano una prigione fisica e mentale, e il fuori mondo, con le sue urla e i suoi fantasmi, resta solo evocato. Tuttavia, in questo spazio chiuso, la regista riesce a inserire momenti di respiro poetico: la ricerca del cielo da una finestra che non si apre mai, o la comparsa di un gatto sulle alte mura del carcere, presenze simboliche che aprono brecce nel realismo e suggeriscono la speranza di un altrove. In questi momenti, i giurati respirano, si aprono al futuro, fanno entrare l’ironia e la leggerezza che vanno di pari passo con il senso di responsabilità.
Infascelli scava con delicatezza dentro le paure dei suoi personaggi. Ogni dialogo pesa come una testimonianza, ogni silenzio contiene la fatica del giudizio. La scelta di alternare toni realistici a momenti sospesi, quasi metafisici, arricchisce il film di una dimensione ulteriore, dove la storia collettiva si intreccia con la ricerca di senso individuale.
Giustizia, memoria e
umanità
Ciò che rende La camera di consiglio interessante è la sua capacità di unire il rigore civile all’intimità del dubbio umano. In quei trentasei giorni di isolamento, Infascelli trova il laboratorio perfetto per interrogare il rapporto tra individuo e istituzione, tra emozione e legge, tra giustizia e verità. Ogni personaggio porta con sé la propria misura di paura e di fede, e la regia sa restituirla con pudore, senza proclami.
Il film parla di una democrazia sotto pressione, di uno Stato che deve riconoscere la propria forza senza perdere la propria umanità. La condanna collettiva di Cosa Nostra, che nel Maxiprocesso segnò una svolta storica, diventa metafora di una nazione che finalmente sceglie di guardare in faccia il male, di riconoscerlo come sistema e non come eccezione. Ma il merito di Infascelli è quello di riportare questo passaggio epocale su una scala umana: otto persone, chiuse in una stanza, che devono scegliere tra giustizia e vendetta, tra dovere e compassione.
Nel linguaggio asciutto e nel ritmo contenuto, La camera di consiglio ritrova quella tradizione del cinema civile italiano che sapeva essere politico senza mai rinunciare alla sensibilità narrativa. È un film che non cerca l’applauso, ma il confronto, che si rivolge allo spettatore come a un cittadino, chiedendogli di partecipare, di ricordare, di prendere posizione.
Rubini e Popolizio offrono due interpretazioni complementari e magnetiche, sostenute da un ensemble coeso che restituisce la coralità del racconto. E mentre l’ambientazione chiusa potrebbe sembrare una limitazione, in realtà diventa la chiave per capire il senso più profondo dell’opera: la giustizia nasce sempre in uno spazio ristretto, in un luogo interiore dove si deve imparare a scegliere.
Fiorella Infascelli firma un film sobrio, intenso, profondamente civile, capace di parlare al presente senza perdere il legame con la Storia. La camera di consiglio non urla, ma lascia un’eco lunga, fatta di silenzi, di sguardi e di coscienze in conflitto. È un cinema che crede ancora nella memoria come forma di resistenza, nella giustizia come gesto umano, e nella responsabilità come atto d’amore verso il Paese.
La camera di consiglio
Sommario
Non un film “di mafia”, ma un film sulla democrazia, sull’atto più difficile del vivere civile: giudicare.