Once Upon a Time in Gaza, recensione del film dei fratelli Nasser – #RoFF20

Presentato nella sezione Best of 2025 alla Festa del Cinema di Roma, Once Upon a Time in Gaza dei fratelli Nasser è un ritratto lucido e commovente della vita sotto assedio, tra oppressione, ironia e l’urgenza di immaginare un futuro diverso.

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Con Once Upon a Time in Gaza, i fratelli Tarzan e Arab Nasser firmano uno dei film più discussi e intensi della sezione Best of 2025 alla Festa del Cinema di Roma. Dopo Dégradé e Gaza Mon Amour, i due registi tornano nella loro terra per raccontare una storia che mescola tragedia e allegoria, realtà e invenzione. Ambientato nel 2007, quando le mura di Gaza erano quasi completate e l’isolamento della Striscia diveniva definitivo, il film mette in scena un’umanità sospesa, compressa tra i resti della speranza e la brutalità quotidiana. È una parabola sull’occupazione, sulla perdita dell’identità, ma anche sull’ironia e la resistenza che ancora abitano chi non ha più nulla da perdere.

2007: mura, divieti e storie soffocate

La vicenda inizia con Yahya (Nader Abd Alhay), giovane studente universitario che sogna di andare in Cisgiordania, a un’ora di distanza, per riabbracciare la famiglia. Ma i visti vengono negati, i checkpoint si moltiplicano, e Gaza si chiude su se stessa. L’incontro con Osama (Majd Eid), tassista dal passato ambiguo, segna l’inizio di una nuova direzione: un’amicizia nata per caso e destinata a trasformarsi in un legame di dipendenza e sopravvivenza. Quando Yahya inizia a lavorare nel piccolo ristorante di falafel di Osama, il film si apre a un microcosmo umano dove l’occupazione si percepisce nei dettagli: il rumore lontano delle esplosioni, i giornali che avvolgono i panini riportando titoli di guerra, la povertà che diventa linguaggio comune. La Striscia è un luogo chiuso ma in costante movimento, un teatro in cui le vite si consumano a vista.

Falafel, contrabbando e ribellione in Once Upon a Time in Gaza

In questo spazio sospeso, il ristorante diventa un crocevia di incontri e segreti. Osama e Yahya trovano un modo per guadagnare qualcosa contrabbandando piccole dosi di droga nei falafel. Ma il loro misfatto non passa inosservato: Abou Sami (Ramzi Maqdisi), ufficiale della polizia di Gaza, inizia a tenerli d’occhio, e il clima si fa sempre più teso. È un momento in cui i “cattivi” non sono solo oltre il muro, ma anche dentro la Striscia – dove la corruzione e la violenza interna diventano una seconda forma di oppressione. I Nasser raccontano tutto questo con una scrittura cinematografica precisa, composta da un equilibrio continuo tra realismo e parabola politica.

Nader Abd Alhay e Majd Eid in Once Upon a Time in Gaza 2025 Recensione
Crediti della Festa del Cinema di Roma

Il film nel film: quando Gaza diventa Hollywood

Uno dei momenti più sorprendenti è la nascita del primo “action movie” mai prodotto a Gaza. Yahya viene scelto come protagonista per la sua somiglianza con il personaggio centrale della sceneggiatura, mentre altri palestinesi si ritrovano a interpretare gli israeliani, con un’ostinazione simbolica: nessuno vuole gettare a terra la bandiera palestinese, nemmeno durante le riprese. Le armi sono vere, il budget limitato, ma la forza del gesto è immensa: Gaza diviene “Gazawood”. L’arte diventa un modo per affermare la propria esistenza, anche in mezzo alla distruzione. È un film che parla di altri film, di identità recitate e di verità cercate attraverso la finzione: una riflessione profonda su cosa significhi raccontarsi da un luogo dove il racconto è, da sempre, un atto di resistenza.

Gazawood in Once Upon a Time in Gaza 2025 Recensione
Crediti della Festa del Cinema di Roma

Once Upon a Time in Gaza: dalle rovine alla dignità della speranza

Con uno sguardo sempre poetico ma mai indulgente, i Nasser riescono a comporre un mosaico complesso, dove ogni personaggio porta in sé una contraddizione. Once Upon a Time in Gaza non si limita a denunciare: osserva, respira, e fa spazio a un’umanità che resiste anche nelle sue zone d’ombra. Le esplosioni in lontananza, le serate passate tra amici, l’ombra che filtra tra i muri scrostati – tutto contribuisce a costruire una Gaza che vive e sanguina allo stesso tempo. Once Upon a Time in Gaza è un film che si contrappone a chi tende a ridurre la Storia a cifra o statistica, e che lascia un’impressione profonda per la sua capacità di raccontare la complessità senza semplificazioni.

Once Upon a Time in Gaza
3.5

Sommario

Poetico, ruvido e d’impatto, Once Upon a Time in Gaza è un racconto di sopravvivenza e identità, dove la violenza non è solo imposta, ma anche interiorizzata. I fratelli Nasser firmano un’opera che, dietro la sua apparente calma, nasconde una domanda ineludibile: come si continua a vivere quando la propria terra diventa una prigione?

Camilla Tettoni
Camilla Tettoni
Romana, classe 1997, è laureata in Lettere Moderne all’Università di Siena e in Italianistica all’Università di Bologna, con lode. Ha conseguito un Master in International Journalism presso l’University of Stirling e un corso avanzato in Geopolitica presso la Scuola di Limes. Appassionata di cinema, dal 2025 collabora con Cinefilos.it con recensioni e approfondimenti cinematografici, affiancando attività di critica culturale e pubblicazioni su riviste italiane e internazionali.

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