È iniziata alle 9:45 di questa mattina e andrà avanti fino alle 18:50 circa di questa sera, anche a causa della pausa pranzo concessa al pubblico fra le 14:45 e le 15:45. Parliamo della più temuta proiezione della Berlinale 66, l’ultimo lavoro del regista filippino Lav Diaz che prende il famigerato nome di A Lullaby to the Sorrowful Mystery (Hele Sa Hiwagang Hapis). 485 minuti di pellicola in bianco e nero e in 4:3, 8 ore e 5 minuti, che all’interno del Festival hanno creato un vero e proprio caso/evento. Non vi è stata anteprima stampa per i giornalisti, solitamente al mattino, così come non è stata programmata una proiezione di Gala per il cast e il pubblico, solitamente la sera; tutto è stato concentrato in una sola sessione e non c’è neppure bisogno di snocciolare i motivi. Anche se il film è ancora in corso mentre noi scriviamo questo articolo, detiene già uno strambo record: è riuscito a spaccare la stampa in tre filoni ancor prima che si mostrasse sullo schermo.
Un festival del
cinema è già complicato di suo, come molti potranno immaginare, si
assiste dai 2 ai 4 film al giorno per ben dieci giorni, in più
appena finisce una proiezione bisogna scappare in conferenza
stampa, poi in sala stampa a scrivere, ancora dopo verso un camion
ristoro qualsiasi e ricominciare la trafila della sala; provate a
immaginare come possa venire accolto un film di 8 ore filate al
settimo giorno di festival, ovvero quello che per molti è il
classico momento in cui sarebbe meglio sbattere in modo
compulsivo il mignolo contro uno spigolo anziché alzarsi alle 7 per
l’ennesima pellicola meta-cinematografica lituana. Ecco dunque
vedere i più sadici appassionati saltellare di
gioia già alle 8 del mattino per il loro mito vivente Diaz, in
barba al freddo tedesco; le classiche persone che anziché chiedere
pietà, portando la croce insieme ai ladroni, sarebbero state capaci
di chiedere altre frustate alle guardie romane. Appena oltre questa
coltre di insensata contentezza, ecco i martiri,
quelli che ‘per il lavoro anche la morte’, perché un impegno con il
proprio editore è più sacro di una mucca indiana; grazie a loro ha
avuto luogo una sfida interna di resistenza, alla quale noi stessi
abbiamo partecipato e perso senza vergogna dopo circa 70
minuti.
Perché in fondo non è
un mero problema di lunghezza, lo sanno bene gli appartenenti alla
terza categoria di giornalisti, i realisti, quelli
che vanno al sodo e conoscono le meccaniche profonde del mondo, che
stanno lì nell’angolo. Non quell’angolo, quell’altro ancora, ancora
più giù, più a destra, più lontano… niente, è inutile cercare, i
realisti sono quelli che la mattina del film di Lav
Diaz rimangono a letto, beati, cullati dai 28 gradi del
sistema di riscaldamento del loro albergo nel cuore di Berlino.
Uomini saggi, statuari, tutt’altro che codardi, poiché loro non
hanno paura del pericolo, loro lo guardano costantemente negli
occhi e quando possono lo evitano. Loro sanno benissimo che il
minutaggio, la distorsione del tempo-spazio, è l’ultimo dei
problemi in casi come questi, quando sullo schermo passano piani
sequenza infiniti, slegati, privi di senso superficiale,
inframezzati da scene-karaoke con la chitarra e canzoni folk
filippine; quando la messa in scena è formalmente ferma e
cristallizzata agli anni ’40 in Cambogia, con la recitazione messa
ancor peggio, mentre nel resto del mondo l’uomo va su Marte e
comanda il termostato di casa dall’ufficio grazie ad
un’applicazione sullo smartphone.
Comprendiamo tutte le dinamiche dell’arte, anzi preghiamo i più facinorosi e sadomasochisti di considerare questo articolo come un divertissement, ma obbligare un uomo a rimanere fermo su una sedia per 485 minuti – per annegare nelle pieghe più concettuali e spirituali delle guerre coloniali filippine – potrebbe essere sinceramente considerato come maltrattamento e/o crimine contro l’umanità. Detto questo, sono le 17:21 e la proiezione non è ancora finita, molti si sono tratti in salvo ma tanti altri, forse troppi, sono ancora dispersi; pagheremmo oro per sbirciare nella grande sala del Berlinale Palast per vedere le condizioni dei sopravvissuti, ma questo sminuirebbe e spettacolarizzerebbe la tragedia. Meglio raccogliersi al primo chiosco di currywurst, continuando a celebrare la vita nella sua forma più silenziosa – e grassa – che ci sia.