Termini Underground di Emilia Zazza presentato al Festival del cinema di Roma.

 

Con ogni mezzo necessario (ma anche senza) – Ci sono cose che sono sotto gli occhi di tutti. Che Roma sia una cittá piena di persone, che vengono da ogni parte del mondo, è evidente. Che Roma sia, cosí come tutta l’Italia, volente o meno,in una fase di cambiamento, in cui le seconde generazioni di quelli che una volta erano migranti saranno parte del tessuto sociale è ancora qualcosa su cui si sta lavorando, nonostante alcuni lungimiranti al contrario cerchino di portarci indietro di un centinaio d’anni.


Il fatto che a Roma, a Termini, centro di smistamento delle culture, qui arriva chi viene da Nord e da Sud, dall’aeroporto e dalla metro, sotto la stazione esista un luogo, un dopolavoro ferroviario, in cui un gruppo di ragazzi, perlopiú adolescenti, impara a ballare hip hop, è cosa poco nota e quanto meno metaforico, e stupefacente che questo gruppo unisca veramente ragazzi di ogni tipo: cinesi, italiani, cingalesi, capoverdiani, afgani. Il ballo come mezzo di comunicazione intergenerazionale e interrazziale.

Sotto la guida di Angela Cocozza, presidente dell’associazione Ali che gestisce il dopolavoro, i ragazzi hanno preparato e messo in scena  la scorsa primavera al teatro Palladium di Roma l’Eneide in versione musical.

Ancora una volta la metafora la fa da padrona. Enea è il primo profugo, scappato da Troia dopo la guerra con i suoi per cercare rifugio sulle coste italiche. L’insegnante spiega questo a Farid, uno dei ragazzi protagonisti del documentario, ma lui, forse ingenuamente, non si riesce a riconoscere nel ruolo di profugo, forse perché in fondo, giá essere fuggito da una zona in guerra come ancora è l’Afghanistan ed essere ancora vivo, gli permette di avere qualche speranza in piú. Il documentario di Emilia Zazza prende tre strade: racconta la messa in scena dell’ Eneide come pretesto per raccontare la storia di alcuni dei ragazzi e del luogo in cui si trovano. Ha anche la solita storia produttiva tipica dei documentari, pochi soldi, tanta volontá e molta determinazione.

Ció che ne viene fuori è la volontá di comunicare, di creare dei rapporti, di ricreare una propria identitá in un luogo nuovo e diverso, come è per loro l’Italia. Per alcuni è piú difficile, devono adattare i loro  costumi e spostare i loro ricordi per adattarsi ad una nuova vita, per altri, come ad esempio Nando, che parla un perfetto romanesco ma non il dialetto capoverdiano della madre, le origini sono qualcosa che c’è, ma non ha poi tanta importanza.

Piú che un documentario, questo sembra essere una matrioska di storie, non viene dimostrata una teoria, ma la storia si sviluppa di fronte alle telecamere della regista, di cui è evidente una certa passione per il cinéma verité dei fratelli Dardenne, senza interferire mai (troppo) con la scena.

Tanto la storia è motore di se stessa, che gli eventi, tra cui il minacciato smantellamento della sala, si sviluppano da soli. Cosí il documentario, che assolve quella che è la funzione principale dei reportage ossia far vedere a piú persone faccende essenzialmente sconosciute o nascoste, diventa il megafono attraverso cui questa associazione si è fatta sentire e ha portato in scena, anche sul red carpet romano, la sua storia.

 

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