Ragazzo americano (American Boy: A Profile of Steven Prince): recensione del DOC

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Ragazzo americano (American Boy: A Profile of Steven Prince) è il documentario-evento presentato alla IV edizione del Festival Internazionale del Film di Roma nella sezione L’altro cinema – Extra diretta da Mario Sesti. Ribattezzato da molti il “film perduto” di Martin Scorsese, l’opera nasce come omaggio all’amico Steven Prince, personaggio controverso e carismatico, noto per la piccola parte in Taxi Driver ma soprattutto per una vita che sembra più incredibile di qualsiasi sceneggiatura.

Il film ha una doppia anima: da un lato c’è l’originale American Boy girato da Martin Scorsese nel 1978, dall’altro c’è il ritorno alla ribalta di Prince grazie a Tommy Pallotta, che più di trent’anni dopo decide di riprenderlo in primo piano, alternando le sue nuove confessioni alle immagini di repertorio. Il risultato è un ritratto che sfida i confini tra cinema, memoria e mito personale.

Il film perduto di Martin Scorsese

Nel 1978 Martin Scorsese era reduce dal successo di Taxi Driver e immerso in un periodo creativo febbrile. In quel contesto realizzò Ragazzo americano (American Boy: A Profile of Steven Prince), un documentario notturno in cui, circondato da amici e conoscenti, Prince raccontava la sua vita come in un flusso ininterrotto di aneddoti. Non c’era trama, non c’era costruzione narrativa: c’era solo un uomo che, seduto di fronte alla macchina da presa, snocciolava episodi di eccessi, dipendenze, avventure borderline, con uno stile che oscillava tra il confessionale e il teatrale.

Quel film divenne presto materiale di culto. In parte perché era difficile da reperire, in parte perché le storie raccontate da Prince avevano una forza tale da travalicare la dimensione documentaria. Non a caso, alcuni registi se ne lasciarono ispirare: Quentin Tarantino prese spunto da uno degli aneddoti più celebri – la rianimazione improvvisata con un’iniezione di adrenalina – per trasformarlo in una delle scene-icona di Pulp Fiction.

Il ritorno di Steven Prince

Dopo oltre trent’anni di silenzio, l’opera “nascosta” di Scorsese torna a vivere grazie a Tommy Pallotta, che decide di incontrare nuovamente Prince e di metterlo ancora una volta al centro della scena. L’operazione ha un fascino particolare: il tempo è passato, i capelli sono diventati bianchi, qualche ruga è comparsa, ma la vitalità e la follia che avevano reso il protagonista un’icona non sembrano essersi spente.

Il nuovo documentario alterna i racconti odierni con le immagini del film di Scorsese. Questo montaggio parallelo crea un dialogo tra passato e presente, tra il mito costruito negli anni Settanta e l’uomo che oggi si guarda indietro con un bicchiere di vino in mano. Il risultato è una riflessione sul tempo, sulla memoria e sul ruolo del racconto come strumento per dare senso all’esistenza.

Una vita più incredibile di una sceneggiatura

Ciò che colpisce in Ragazzo americano (American Boy: A Profile of Steven Prince) è la natura straordinaria delle esperienze narrate. Le vicende di Steven Prince – fatte di droga, alcol, incontri con figure eccentriche e colpi di fortuna inverosimili – sembrano uscite da una sceneggiatura di Hollywood. Eppure non sono finzione: sono la sua vita reale.

Seduto in poltrona, con lo stesso piglio sfrontato e ironico di un tempo, Prince affronta i ricordi con una leggerezza che disarma. Non c’è alcun compiacimento né pentimento, solo la consapevolezza che l’esistenza va vissuta giorno per giorno, che l’oggi conta più del domani. È questa filosofia istintiva, al limite del nichilismo, a renderlo un personaggio affascinante e al tempo stesso disturbante.

Cinema, mito e memoria

Il documentario non si limita a ricostruire la biografia di Prince: diventa anche una riflessione sul rapporto tra cinema e realtà. Il volto di Steven, ieri e oggi, testimonia come il cinema possa trasformare una persona comune in un personaggio mitico, capace di influenzare l’immaginario collettivo ben oltre la propria vicenda personale.

L’alternanza tra le immagini dirette da Scorsese e quelle girate da Pallotta mostra inoltre come la macchina da presa non sia solo strumento di registrazione, ma anche di reinvenzione. Prince diventa una sorta di “icona pop vivente”, figura sospesa tra verità e leggenda, simbolo di una generazione che ha fatto della trasgressione e dell’eccesso il proprio marchio distintivo.

Conclusione

Ragazzo americano (American Boy: A Profile of Steven Prince) è molto più di un documentario su un personaggio fuori dagli schemi: è un viaggio nella memoria, nella cultura pop e nel potere del cinema di trasformare la vita in racconto e il racconto in mito.

Steven Prince appare come un sopravvissuto, un uomo che ha attraversato gli inferni della dipendenza e della notte americana senza mai perdere quella vitalità ironica che lo rese indimenticabile già agli occhi di Scorsese.

Il documentario di Pallotta, in dialogo costante con quello di Scorsese, ci restituisce un ritratto contraddittorio e affascinante, capace di far riflettere sul tempo che passa e sulla possibilità del cinema di preservare, amplificare e a volte reinventare le vite che incontra.

American Prince/American Boy: A Profile of Steven Prince
3.5

Sommario

Un documentario tra memoria e mito: American Prince/American Boy riporta in scena Steven Prince, icona pop resa immortale da Scorsese e riscoperta da Pallotta.

Francesco Madeo
Francesco Madeo
Laureato in Scienze Umanistiche-Cinema e in Organizzazione e Marketing della Comunicazione d'Impresa è l'ideatore di Cinefilos.it assieme a Chiara Guida e Domenico Madeo.

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