ACAB, recensione della serie Netflix con Marco Giallini

La serie offre un punto di vista privato nella vita dei membri della squadra "Roma".

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Dopo il film del 2012 di Stefano Sollima, il romanzo di Carlo Bonini trova una nuova forma nella serie ACAB, disponibile su Netflix dal 15 gennaio. Un ambizioso e asciutto tentativo di trasporre il potente immaginario dell’omonimo romanzo in sei episodi intensi, brutali, ma aperti a porre (e a porsi) domande sulla “zona grigia” dell’animo umano.

 

Prodotta da Cattleya, parte di ITV Studios, questa nuova versione, che segue il racconto di Sollima, si muove tra narrazione sociale e introspezione psicologica, senza mai risparmiarsi nella rappresentazione della violenza e delle contraddizioni delle forze dell’ordine, in un tentativo, più o meno a fuoco, di isolare anche i singoli dal gruppo e di raccontarli nella loro umana quotidianità.

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La storia di ACAB – la serie

Acab
Foto di Marco Ghidelli – © 2025 Netflix, Inc.

Ambientata tra i tumultuosi scontri in Val di Susa, la serie si apre con un episodio che mette subito in chiaro le sue intenzioni. La squadra del Reparto Mobile di Roma, soprannominata semplicemente “Roma”, perde il suo capo durante una notte di feroce conflitto. Questo evento destabilizzante pone le basi per il racconto, che esplora le dinamiche interne di un gruppo forgiato dall’uso di metodi estremi e dall’affiatamento cameratesco. Marco Giallini, nei panni dell’ispettore Ivano Valenti detto “Mazinga” (lo stesso del 2012), incarna perfettamente il veterano indurito dagli anni, mentre Adriano Giannini interpreta Michele Nobili, il nuovo comandante, simbolo di una visione riformista e umano/razionale, in netto contrasto con quella tradizionale della squadra.

“Roma” non è solo una squadra, ma una famiglia che si regge su un precario equilibrio di omertà, violenza e sopravvivenza. Ogni personaggio porta con sé un bagaglio di fallimenti personali che si riflette nel lavoro: relazioni tossiche, solitudine e traumi irrisolti. Valentina Bellè, che interpreta l’agente Marta Sarri, introduce un elemento di novità nella squadra, rappresentando una nuova generazione di poliziotti, con tutte le difficoltà di adattamento in un contesto così ostile. Come sempre negli ultimi anni, Bellè brilla per intensità e interpretazione, pure senza sfuggire al cliché in cui la intrappola la sceneggiatura stessa.

Un equilibrio tribale minacciato dalla razionalità

L’equilibrio del gruppo è minacciato dall’arrivo di Nobili, il comandante proveniente dalla Senigallia, squadra soprannominata “rosa” per i suoi metodi meno brutali. Questo contrasto ideologico tra una visione riformista e la tradizione della “mano pesante” è il cuore pulsante della serie. Mentre Nobili combatte il modus operandi della sua nuova squadra deve anche confrontarsi con la sua personale discesa all’Inferno, che potrebbe portarlo ad abbracciare quella “mano pesante” dalla quale tanto prova a distanziarsi. Con questa umanità rovinata in gioco, la serie cerca di riflettere sul dilemma centrale di ogni ordine democratico: dove finisce l’esercizio legittimo della forza e dove inizia l’abuso di potere?

Foto di Marco Ghidelli – © 2025 Netflix, Inc.

La buona regia di Michele Alhaique si distingue per il suo approccio crudo e realistico. Siamo lontanissimi dai prodotti “per la televisione” che facevano a meno di effetti visivi e virtuosismi, qui la qualità del prodotto è alta e tutte le maestranze in campo contribuiscono alla realizzazione di un prodotto cinematograficamente valido. Gli scontri in Val di Susa sono rappresentati con un’intensità quasi documentaristica, catturando la violenza in tutta la sua brutale immediatezza. Sassi, lacrimogeni, petardi e scudi diventano strumenti narrativi che trascinano lo spettatore nel caos. Le scene d’azione non sono mai fini a se stesse, e vengono sfruttate per sottolineare la disumanizzazione che inevitabilmente accompagna la gestione del disordine pubblico.

Il viaggio nel privato di ACAB

Parallelamente, la serie scava nelle vite private dei protagonisti, rivelando un mondo di miserie quotidiane. Questa dimensione intima, che si alterna ai momenti di violenza collettiva, offre un ritratto umano e complesso dei poliziotti, senza mai cadere nella trappola della giustificazione o della condanna unilaterale. Non si salva nessuno, e nessuno si redime, tutti sono messi in discussione e il giudizio rimane sospeso.

La writers room di ACAB, costituita da Carlo Bonini, Filippo Gravino, Elisa Dondi, Luca Giordano e Bernardo Pellegrini, si esercita in una danza tra pubblico e privato, tra incertezza, dubbio e dolori privati e granitica convinzione pubblica, nell’esercizio del proprio ruolo. Ognuno dei personaggi ha una ferita privata che si riverbera in qualche modo sul pubblico, senza che questo privato doloroso venga raccontato come una giustificazione alla violenza. L’equilibrio è delicato e se in parte riesce, non evita nessuno dei cliché che incontrano lungo la strada.

Ed ecco che gli ACAB sono soli, estraniati dai figli, con un passato violenti, con traumi indicibili. Probabilmente non era nell’interesse della scrittura sorprendere o proporre personaggi in qualche modo nuovi, anche se all’ennesima svolta prevedibile, il sospetto di scelte dettate dalla pigrizia prende piede. Per fortuna questo difetto non si riscontra nella struttura dei dialoghi, diretti e brutali, che rispecchiano fedelmente le tensioni e le contraddizioni di un ambiente così complesso.

L’influenza del contesto storico e sociale

Foto di Marco Ghidelli – © 2025 Netflix, Inc.

Uno degli aspetti più interessanti della serie è il suo legame con il contesto storico e sociale. Il romanzo e il film originale erano stati fortemente influenzati dal massacro della Diaz e dal G8 di Genova, ma la serie si aggiorna al presente, mostrando come le dinamiche di violenza e protesta siano cambiate negli ultimi anni. L’inserimento della figura femminile di Marta e la rappresentazione di un reparto mobile alle prese con un nuovo “autunno caldo” conferiscono alla narrazione una dimensione di attualità e inclusività. Le forze dell’ordine sono cambiate nella forma, ma la sostanza rimane sempre quella.

L’intento di elaborare quelle “zone grigie” a cui si accennava all’inizio della recensione di ACAB viene solo parzialmente compiuto, la mancanza di un vero e proprio effetto sorpresa e la mancanza di uno sviluppo coerente e omogeneo per tutti i personaggi della squadra sembrano denotare una certa fretta nelle scelte narrative, un taglio dei protagonisti che non giova certamente al racconto corale che sarebbe dovuta essere questa serie. Anche se il valore produttivo, le interpretazioni e la messa in scena rendono ACAB una serie da tenere d’occhio, il mancato approfondimento e la conseguente fallita problematizzazione del tema la rendono forse riuscita a metà, soprattutto in un contesto storico e politico dove i tanto condannati metodi dei protagonisti sembrano caldeggiati e sponsorizzati da chi invece dovrebbe tutelare la pace e il rispetto.

ACAB
2.5

Sommario

ACAB è un ritratto duro che cerca di indagare le “zone grigie” del corpo di polizia, sconfinando nel privato dei singoli individui, senza però evitare i cliché.

Chiara Guida
Chiara Guida
Laureata in Storia e Critica del Cinema alla Sapienza di Roma, è una gionalista e si occupa di critica cinematografica. Co-fondatrice di Cinefilos.it, lavora come direttore della testata da quando è stata fondata, nel 2010. Dal 2017, data di pubblicazione del suo primo libro, è autrice di saggi critici sul cinema, attività che coniuga al lavoro al giornale.

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