Stranger Things 3: recensione della serie tv Originale Netflix

Storia e storie infinite nel nuovo ciclo dello show Netflix

Stranger Things 3 recensione serie tv netflix

Per gli Stati Uniti, il 4 luglio è l’anniversario della Dichiarazione d’Indipendenza dal Regno Unito, era il 1776 e i 13 Colonie Britanniche sancivano la loro autonomia. Il 4 luglio del 2019, invece, il mondo ha festeggiato l’arrivo di Stranger Things 3, l’attesa terza stagione della serie Stranger Things su Netflix. La piattaforma streaming più famosa nel globo terracqueo ha infatti scelto questa data simbolica per distribuire day and date la terza stagione della serie ideata dai Fratelli Duffer, che è esplosa nell’estate del 2016 con la prima stagione diventata un instant cult.

 

Stranger Things 3 fa scendere in campo l’adolescenza: quella dei giovani protagonisti, quella ritrovata/emotiva dei protagonisti adulti, ma anche quella della serie stessa che ripropone lo stesso schema delle passate stagioni, arricchito e stratificato, reso più complesso da una migliore analisi storica e virato ancora di più all’horror. Ovviamente anche in questo terzo ciclo i Duffer hanno farcito ogni episodio di riferimenti per un effetto nostalgia preconfezionato, riuscendo come sempre a rendere tale omaggio indimenticabile.

Ma andiamo con ordine. Il finale della seconda stagione ci aveva lasciati con la minaccia del Mind Flayer che incombeva nel Sottosopra, a Hawkins, mentre i nostri protagonisti partecipavano al Ballo d’Inverno. Ovviamente il ciclo di episodi spalancava la porta ad una terza stagione, in cui i nostri si trovano di nuovo ad affrontare le creature del regno “di là”, con Eleven assume ancora il ruolo di super-eroina e con i suoi amici che sfoggiano tutto il coraggio e l’ingegno di cui sono capaci.

Stranger Things 3
Stranger Things

Se quindi da una parte sembra tutto già visto ed elevato a potenza, dall’altra Stranger Things terza stagione ci offre diversi spunti di riflessione che offrono un quadro più completo del panorama storico, sia in riferimento al 1985, anno di ambientazione di questa stagione, che in relazione al 2019.

Frutto del “mondo moderno” è senza dubbio la centralità della figura femminile. Prima di tutto, Eleven si svincola dal ruolo di topo di laboratorio, la ragazza non è più solo un esperimento, ma impara a confrontarsi con le persone ed a fronteggiare i primi turbamenti amorosi, stringe inoltre un legame forte con Max, la coetanea tutta pepe, e così scopre tutto un altro aspetto dell’amicizia che, fino a quel momento, era stata affrontata soltanto sotto la luce del sacro legame che c’è in un gruppo in cui nessuno mente; Jocey, mamma di Will, torna ai suoi siparietti esagitati, ma questa volta però cede con più consapevolezza al versante comico del suo personaggio; Nancy fatica a farsi prendere sul serio presso la redazione del giornale cittadino, dove viene relegata a compiti di segretaria, ma sgomita e combatte, seguendo il suo fiuto; la new entry Robin è fondamentale per lo sviluppo della trama, energica, simpatica, sveglia, sicuramente il personaggio in cui gli showrunner hanno investito il meglio delle loro energie; persino la linguacciuta Erica, sorellina di Lucas, si conferma uno dei personaggi più divertenti della serie (“Non puoi scrivere America senza Erica!”).

Intorno a loro si affannano i maschietti, goffi, impreparati, in eterna rincorsa per riconquistare, seguire, impressionare le proprie amiche/compagne/colleghe, con la sola eccezione di Dustin, al quale è dedicata una delle scene più divertenti e “catchy” dell’intera stagione.

Mike e Lucas sono completamente preda dei loro ormoni e della loro incapacità di gestire i rapporti con le rispettive fidanzatine, Will è rimasto un passo indietro e vorrebbe continuare a giocare a D&D, come se nulla fosse cambiato dalla sera prima del suo rapimento (stagione 1), Jonathan rincorre Nancy (Natalia Dyer) senza riuscire a riconoscerne il valore, Bill trova invece il suo ruolo all’intero della storia, dando sfogo ai suoi istinti, Steve sembra aver perso il suo appeal sulle donne ma sembra aver guadagnato la simpatia imperitura dei fan, infine Hopper (David Harbour), amatissimo sceriffo, in preda alla folle gelosia per la figlia e assolutamente incapace di razionalizzare i suoi sentimenti per Joyce (Winona Ryder), comico, goffo e impacciato, completamente differente rispetto al personaggio che abbiamo imparato ad amare nelle due stagioni precedenti.

Per quanto riguarda invece il contesto storico a cui si accennava, Stranger Things 3 si radica profondamente in quegli anni ’80 tanto idealizzati, riportandoli alla sporca realtà, e così la Guerra Fredda e la minaccia dei russi, l’invasione dei centri commerciali a discapito delle piccole aziende, il terrore dello spionaggio entrano prepotentemente nella storia, divenendone la spinta principale e fondendosi alla perfezione con la trama orrorifica, mai così centrale. Il riferimento all’Invasione degli Ultracorpi, alla luce di questa riflessione e di eventi specifici che si verificano nel corso della stagione, sembra quindi avere un ruolo fondamentale nel ventaglio di debiti e citazioni che anche questa volta sono disseminati con sapienza in tutti e otto gli episodi.

In questo radicamento storico e nell’affetto che ormai nutriamo per i personaggi va rintracciato il valore di Stranger Things 3, che narrativamente parlando fa anche lo sforzo di separare i protagonisti, regalandoci cinque tracce, cinque avventure da seguire e che solo nel finale si ricongiungono per lo scontro all’ultimo sangue. Tutte queste sotto-trame vengono portate avanti con coerenza, risultando sempre interessanti e, soprattutto, importanti allo sviluppo complessivo della storia principale.

I Fratelli Duffer riescono, meglio di quanto fatto per il secondo ciclo, ad offrire un racconto accattivante, a presentare nuovi personaggi che catturano a prima vista e a modificare quanto basta la struttura e le premesse narrative dei cicli precedenti per tenere alto l’interesse. Quello che però va detto è che la serie Netflix, a dispetto del successo planetario, non contiene nessun elemento di eccellenza, limitandosi ad essere un buon prodotto, che intrattiene senza sconvolgere le logiche linguistiche del genere, rivelandosi, come già in passato, un oggetto caro a tutti gli spettatori acchiappa Easter Eggs, che commossi e trasportati dalle emozioni, continueranno a cantare, anche a visione ultimata, una canzone di Limahl, alzando il pugno al cielo. Il che non è per forza un male.

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