E dunque rieccoci, pronti ad apparecchiarla, a imbandirla con cura, lasciando che al di sopra (o al di sotto) di essa si raccolgano le fila di altre storie, altre vite, altri destini; lasciando alla supervisione di Coolidge, Ward e Simmons il dispiegarsi di quel che fu, prima di quel che sappiamo essere stato.
The Continental: la trama
“Non possiamo sfuggire a ciò che siamo, non possiamo sfuggire alla Tavola”.
New York City, 1955. Due ragazzi
corrono nella notte. Stacco. Un giovanissimo Winston Scott e suo
fratello Frankie siedono in una stanza per interrogatori di una
stazione di polizia. Winston piange, tra i singhiozzi si rivolge a
Frankie; questi prova a calmarlo, a rassicurarlo. La macchina da
presa stringe sui loro volti.
E così ha inizio.
La parabola di Winston Scott prende
il via dalla superficie di un viso rigato dalle lacrime, a metà
degli anni ’50. E subito l’abbandona, teletrasportandosi “years
later” tra le pieghe dei Seventies. A Londra, Winston
(Colin Woodel) è un impegnato uomo d’affari in
rampa di lancio; in quel di New York, invece, il fratello Frankie
(Ben Robson) organizza e porta a termine un furto
ai danni del malavitoso Cormac (Mel Gibson).
Le loro strade, rimaste per lungo tempo separate, torneranno a
intersecarsi per le vie della Grande Mela, innescando una
incontrollabile spirale di violenza che, tra nuove incombenze e
tracce di un passato irrisolto, segneranno l’ascesa di Winston ai
vertici del mondo criminale americano.
Dal guaito di un cane, al pianto di un bambino. Di nuovo il dolore all’origine di ferocia, brutalità e grandezza.
The Continental: in memoriam corporis
“La sera brilla ancora della memoria di un sole estivo”.
Una lode all’assenza, all’assente; poesia visiva mainstream accordata al sordo rimbombo di un colpo di pistola. Sorge così The Continental, dal terreno fertile di un ricordo ancora fresco, nella sepontaneità aforistica di un bagliore riflesso incapace di estinguersi. Sorge così, dalle nere ceneri di un organismo-cinema ancora pulsante; e lo fa senza un corpo, senza IL corpo. Privata della muscolarità immaginifica del suo simbolo e genitore, dell’oscurità ingombrante del Baba Yaga di Reeves. E chiamata a tracciare altri sentieri, altri percorsi, a disegnare il passato di un racconto concluso (?), congedatosi di fronte a una bianca lapide, in attesa.
Sarebbe potuta crollare The Continental, snaturare il franchise, cadere sotto i double headshot dettati dal passagio autoriale e transmediale della narrazione. La creatura di Coolidge, Ward e Simmons, al contrario, pur evidentemente derivativa e a tratti infarcita (sin troppo) di omaggi all’astronave madre, riesce a erigere un’impalcatura identitaria propria, incanalandosi fra tradizione e mitologia per compiere un deciso e decisivo “passo indietro”.
Una New York (extra)diegetica
Sono gli anni ’70; il rassicurante
alveo diegetico selezionato dagli autori per armare quel
braccio violento della legge criminale in grado di
riscrivere la storia dell’action contemporaneo. Sono gli anni della
rivoluzione (esterna) dell’immaginario, della new hollywood, di
quel
neo-noir infiltratosi tra i linguaggi di riferimento della saga
d’origine e dal quale The Continental pesca a
piene mani, mescolandone i codici con le atmosfere da graphic novel
tanto care ai primi
John Wick. È una New York cupa, rabbiosa; una
città labirinto che al thriller-action amalgama il poliziesco,
mantenendo però intatta la tipica verticalità fisica dello spazio
stahelskiano, restituita attraverso una duplice carrellata nei
primi minuti dello show – ponte di collegamento tra la saturazione
cromatica di una disco-sala da ricevimento e il monotono grigiore
del “sotteranneo”.
Nomi e volti malfamati si aggirano per i vicoli della serie,
affollando garage, palazzi, quartieri; i volti di Winston, del
fratello Frankie, i volti di Cormac, di Charon, di Yen; pianeti
orbitanti destinati a collidere, personaggi giocanti inseriti nei
meccanismi di un efficace e truculento divertissement.
Il quadro finale è una composizione forse distante dalle vette teorico-visive raggiunte dal quarto capitolo cinematografico, nonché per lo più spogliata delle derive videoludiche dello stesso. Composizione fedele, però, ai principi base, alle regole d’ingaggio, ai dogmi di un progetto capace negli anni di evolversi e reinventarsi, senza mai venir meno o perdere di vista la rotta dell’intrattenimento più puro, tra infiltrazioni tarantiniane (pestaggi “radiofonici” a ritmo di boogie) e contaminazioni cyberpunk (i “gemelli”).
Perché, in fin dei conti, ben vengano dramma, thriller e politica criminosa; but first of all…we need guns, lots of guns.