The Continental: recensione della serie spin off di John Wick

Dal 22 settembre, in esclusiva Amazon Prime Video, la nuova miniserie ideata da Greg Coolidge, Kirk Ward e Shawn Simmons

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E dunque rieccoci, pronti ad apparecchiarla, a imbandirla con cura, lasciando che al di sopra (o al di sotto) di essa si raccolgano le fila di altre storie, altre vite, altri destini; lasciando alla supervisione di Coolidge, Ward e Simmons il dispiegarsi di quel che fu, prima di quel che sappiamo essere stato.

 

 

The Continental: la trama

“Non possiamo sfuggire a ciò che siamo, non possiamo sfuggire alla Tavola”.

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New York City, 1955. Due ragazzi corrono nella notte. Stacco. Un giovanissimo Winston Scott e suo fratello Frankie siedono in una stanza per interrogatori di una stazione di polizia. Winston piange, tra i singhiozzi si rivolge a Frankie; questi prova a calmarlo, a rassicurarlo. La macchina da presa stringe sui loro volti.
E così ha inizio.

La parabola di Winston Scott prende il via dalla superficie di un viso rigato dalle lacrime, a metà degli anni ’50. E subito l’abbandona, teletrasportandosi “years later” tra le pieghe dei Seventies. A Londra, Winston (Colin Woodel) è un impegnato uomo d’affari in rampa di lancio; in quel di New York, invece, il fratello Frankie (Ben Robson) organizza e porta a termine un furto ai danni del malavitoso Cormac (Mel Gibson).
Le loro strade, rimaste per lungo tempo separate, torneranno a intersecarsi per le vie della Grande Mela, innescando una incontrollabile spirale di violenza che, tra nuove incombenze e tracce di un passato irrisolto, segneranno l’ascesa di Winston ai vertici del mondo criminale americano.

Dal guaito di un cane, al pianto di un bambino. Di nuovo il dolore all’origine di ferocia, brutalità e grandezza.

The Continental: in memoriam corporis

“La sera brilla ancora della memoria di un sole estivo”.

Una lode all’assenza, all’assente; poesia visiva mainstream accordata al sordo rimbombo di un colpo di pistola. Sorge così The Continental, dal terreno fertile di un ricordo ancora fresco, nella sepontaneità aforistica di un bagliore riflesso incapace di estinguersi. Sorge così, dalle nere ceneri di un organismo-cinema ancora pulsante; e lo fa senza un corpo, senza IL corpo. Privata della muscolarità immaginifica del suo simbolo e genitore, dell’oscurità ingombrante del Baba Yaga di Reeves. E chiamata a tracciare altri sentieri, altri percorsi, a disegnare il passato di un racconto concluso (?), congedatosi di fronte a una bianca lapide, in attesa.

Sarebbe potuta crollare The Continental, snaturare il franchise, cadere sotto i double headshot dettati dal passagio autoriale e transmediale della narrazione. La creatura di Coolidge, Ward e Simmons, al contrario, pur evidentemente derivativa e a tratti infarcita (sin troppo) di omaggi all’astronave madre, riesce a erigere un’impalcatura identitaria propria, incanalandosi fra tradizione e mitologia per compiere un deciso e decisivo “passo indietro”.

Una New York (extra)diegetica

Sono gli anni ’70; il rassicurante alveo diegetico selezionato dagli autori per armare quel braccio violento della legge criminale in grado di riscrivere la storia dell’action contemporaneo. Sono gli anni della rivoluzione (esterna) dell’immaginario, della new hollywood, di quel neo-noir infiltratosi tra i linguaggi di riferimento della saga d’origine e dal quale The Continental pesca a piene mani, mescolandone i codici con le atmosfere da graphic novel tanto care ai primi John Wick. È una New York cupa, rabbiosa; una città labirinto che al thriller-action amalgama il poliziesco, mantenendo però intatta la tipica verticalità fisica dello spazio stahelskiano, restituita attraverso una duplice carrellata nei primi minuti dello show – ponte di collegamento tra la saturazione cromatica di una disco-sala da ricevimento e il monotono grigiore del “sotteranneo”.
Nomi e volti malfamati si aggirano per i vicoli della serie, affollando garage, palazzi, quartieri; i volti di Winston, del fratello Frankie, i volti di Cormac, di Charon, di Yen; pianeti orbitanti destinati a collidere, personaggi giocanti inseriti nei meccanismi di un efficace e truculento divertissement.

Il quadro finale è una composizione forse distante dalle vette teorico-visive raggiunte dal quarto capitolo cinematografico, nonché per lo più spogliata delle derive videoludiche dello stesso. Composizione fedele, però, ai principi base, alle regole d’ingaggio, ai dogmi di un progetto capace negli anni di evolversi e reinventarsi, senza mai venir meno o perdere di vista la rotta dell’intrattenimento più puro, tra infiltrazioni tarantiniane (pestaggi “radiofonici” a ritmo di boogie) e contaminazioni cyberpunk (i “gemelli”).

Perché, in fin dei conti, ben vengano dramma, thriller e politica criminosa; but first of all…we need guns, lots of guns.

Sommario

Distante dalle vette teorico-visive del quarto capitolo cinematografico la serie è un truculento divertissement che amalgama action, thriller e poliziesco anni '70
Dario Boldini
Dario Boldini
Laureato in Lettere Moderne all'Università Statale di Milano, ha collaborato con l'Associazione Culturale Lo Sbuffo a partire dal 2019, scrivendo articoli e approfondimenti sul mondo dello spettacolo. Ha poi frequentato la specializzazione in Critica cinematografica presso la rivista e scuola di cinema di Sentieri Selvaggi di Roma, con la quale collabora dal 2022. Appassionato di cinema e serie tv, collabora con Cinefilos dal 2023. A partire dal 2022 ha partecipato a diversi festival cinematografici su territorio nazionale, tra cui quelli di Venezia, Roma, Torino, Bergamo e Trieste.

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