Taylor Hackford, regista noto per Ufficiale e gentiluomo e Rapimento e riscatto, ha nel 1997 diretto il thriller soprannaturale L’avvocato del diavolo. Con questo film, Hackford da forma ad un racconto che mescola elementi legali, psicologici e fantastici, dando vita a una storia intensa e stratificata. Con un cast d’eccezione guidato da Keanu Reeves, Al Pacino e Charlize Theron, il film si basa sull’omonimo romanzo di Andrew Neiderman e si presenta come un’opera di forte impatto visivo e tematico. Ambientato tra la Florida e New York, esso esplora le profondità dell’ambizione, della morale e della corruzione dell’anima, proponendo una visione disturbante ma affascinante del libero arbitrio e della tentazione.
Il personaggio di Kevin Lomax, interpretato da Reeves, è un giovane e ambizioso avvocato che si ritrova invischiato in un mondo scintillante ma moralmente ambiguo, dove il successo ha un prezzo sempre più alto. Il film si muove così tra aule di tribunale e visioni inquietanti, affrontando temi universali come la vanità, il libero arbitrio, l’identità e la lotta tra bene e male. Hackford riesce a raccontare tutto questo con uno stile avvincente, rendendo L’avvocato del diavolo un perfetto esempio di cinema mainstream capace di veicolare riflessioni profonde sotto la superficie spettacolare del racconto.
L’opera è ancora oggi oggetto di analisi e interpretazioni, soprattutto per quanto riguarda il suo sorprendente finale, che chiude la storia lasciando aperti interrogativi cruciali su realtà, manipolazione e coscienza. In questo articolo ci concentreremo proprio sul significato di quel finale, cercando di coglierne le implicazioni filosofiche, religiose e simboliche, e inquadrandolo all’interno della struttura tematica del film e del messaggio che il regista ha voluto trasmettere.
La trama di L’avvocato del diavolo
Protagonista del film è il giovane e promettente avvocato Kevin Lomax, il quale non ha mai perso un caso. Proprio questa vicenda porta Kevin ad essere contattato da un importante studio legale di New York, il quale gli offre una grande somma di denaro per unirsi a loro. A capo dello studio vi è il controverso John Milton, personalità misteriosa e incline alla malvagità. Questi decide di testare le capacità di Kevin affidandogli subito un caso molto complesso. Mentre si trova così impegnato, l’avvocato inizia però a vivere una serie di strani episodi, che lo porteranno a comprendere che l’uomo per cui lavora non è chi sembra essere.
La spiegazione del finale del film
Il finale de L’avvocato del diavolo si snoda attraverso una rivelazione sconvolgente che rilegge in chiave metafisica tutta la vicenda. Dopo aver scoperto l’identità demoniaca di John Milton, che si rivela essere il vero padre di Kevin e dopo aver assistito alla distruzione psicologica e fisica della moglie Mary Ann, Kevin si ritrova di fronte a una proposta di potere assoluto. Milton vuole che il figlio generi con la sorellastra un bambino destinato a governare il mondo, in una sorta di distorto piano messianico. Di fronte a questa prospettiva apocalittica, Kevin compie però un atto estremo di rifiuto: si spara, togliendosi la vita per impedire che il piano venga portato a termine.
È un momento di rottura che sembrerebbe segnare la fine della tentazione e la vittoria del libero arbitrio sulla manipolazione satanica. Ma il film non si ferma lì. In un colpo di scena che scompagina ogni certezza, Kevin si risveglia nel bagno del tribunale in Florida, al termine del primo processo visto nel film. Tutto sembra non essere mai accaduto: la proposta del grande studio legale di New York deve ancora essere fatta. Kevin, armato di una nuova consapevolezza, rifiuta l’offerta per restare fedele alla sua etica. Sembra la conclusione catartica di un viaggio morale, ma ecco che il giornalista che ha seguito il caso lo convince a concedergli un’intervista.
Subito dopo, però, il giornalista si trasforma di nuovo in John Milton, rompendo la quarta parete e chiudendo il film con un beffardo “Vanità… decisamente il mio peccato preferito”. È chiaro a questo punto che la tentazione non ha fine, e che Milton è ovunque e sempre pronto a sfruttare le debolezze umane. Questo finale pone inoltre domande inquietanti. È tutto un sogno? Un’allucinazione? O siamo dentro un ciclo di prova e fallimento dove il libero arbitrio viene testato continuamente? La struttura narrativa suggerisce una dimensione allegorica più che realistica.
L’intero film potrebbe essere letto come una prova morale, una sorta di “tentazione nel deserto” per un uomo moderno, dove la posta in gioco non è solo l’anima del protagonista, ma la possibilità stessa di resistere alla corruzione sistemica. Kevin rifiuta il potere, ma la vanità lo afferra da un altro lato. È un’espressione moderna del male come presenza sottile, insinuante, capace di travestirsi da successo, fama, riconoscimento. Tematicamente, il finale completa dunque un discorso sull’identità e sull’etica personale che attraversa tutto il film. Il male, nella visione di Hackford e Neiderman, non è un’entità esterna con corna e zoccoli, ma una componente intrinseca all’ambizione umana.
John Milton è la personificazione di questa verità: affascinante, colto, irresistibile. Il suo monologo finale è una dichiarazione d’intenti che espone la vulnerabilità dell’essere umano nella società capitalista e competitiva. La vera battaglia non si combatte tra bene e male in senso assoluto, ma tra l’integrità e la vanità, tra il fare la cosa giusta e il desiderio di essere ammirati. Così, il film chiude il cerchio in modo ambiguo e perturbante, lasciando lo spettatore con l’impressione che la tentazione sia ovunque — e che, molto probabilmente, nessuno è davvero al sicuro.