Forma e contenuto: Michael Winterbottom

Analisi approfondita, impegno, temi mai scontati e uno stile registico che punta alla semplicità e all’immediatezza. Queste le qualità che lo hanno reso un regista apprezzato in tutto il mondo, spesso presente in festival internazionali, senza però perdere quello zoccolo duro di appassionati che ne fanno un regista di culto ancor prima che una star. È l’inglese Michael Winterbottom, nato a Blackburn (Lancashire) il 29 marzo 1961. In vent’anni di attività, prima per la tv e poi per il cinema, ha dimostrato di non aver nulla da invidiare a più blasonati colleghi suoi connazionali: uno per tutti, Ken Loach. Anzi, forse per questioni anagrafiche, Winterbottom allarga il suo campo d’azione e interesse oltre quello dell’analisi socio-politica – di cui pure si occupa- toccando altri temi caldi e nervi scoperti dell’ultima generazione: il disagio esistenziale, l’inaridimento dei rapporti umani, la malattia mentale e fisica, le perversioni, la violenza. Perciò la sua produzione è quanto mai eclettica e sempre interessante, curiosa della realtà e che incuriosisce.

 

Dopo gli studi di cinema e televisione alla Bristol University e al Polytechnic di Londra, si occupa di montaggio alla Thames Television. Non fa mistero di riconoscersi nel lavoro di grandi maestri del cinema europeo: Godard, Wenders Truffaut e Bergman. È proprio con un documentario su quest’ultimo che esordisce dietro la macchina da presa alla fine degli anni ’80: Ingmar BergmanThe Magic Lantern (1989). Al contempo, firma  alcuni lavori televisivi (Rosie The Great –’89- Forget about me –’90- Under the sun –’92). In questi anni inizia la sua prolifica collaborazione con lo sceneggiatore Frank Cottrell Boyce. Nel 1994 dirige per la BBC la serie Family, prodotta da Andrew Eaton, con cui nello stesso anno fonda la sua casa di produzione: la Revolution Films. Tutto è pronto per l’esordio sul grande schermo, che avviene con Butterfly Kiss. Ci sono tutte le caratteristiche del cinema del regista inglese in questo drammatico racconto del rapporto intenso, ma distruttivo, tra due donne: una forte, decisa, violenta (Eunice/Amanda Plummer), l’altra remissiva (Miriam/Saskia Reeves), accomunate da un disagio che è insieme esistenziale, mentale e fisico. Un viaggio nel nord dell’Inghilterra a caccia di vittime da uccidere. E anche tra le due protagoniste, un rapporto “carnefice-vittima” o se si preferisce, sadomasochistico, in cui Miriam alternativamente subisce la furia cieca di Eunice e ne diventa complice, nell’illusione che quella possa essere per entrambe la via d’uscita da un’esistenza mortificante e senza alcuno sbocco. C’è lo squallore dei sobborghi industriali inglesi, perfetta cornice del dramma, ma c’è anche la natura, l’acqua che accompagna l’ultimo gesto violento, l’unico possibile, che riporta pace ed equilibrio in una sequenza finale in bianco e nero. C’è la musica (Cramberries, Bjork, New Order), che si fonde con l’immagine e l’azione, adattissima, come sempre quando a sceglierla è qualcuno che ama questo mezzo espressivo, forse al pari della macchina da presa. Il film non ottiene un grandissimo successo, ma colpisce i giovani, che ne fanno una pellicola di culto, e mette senz’altro in luce il talento di Winterbottom: la forza e al contempo la delicatezza con cui riesce a trattare temi complessi e inusuali e a muoversi su terreni impervi.

Forma e contenuto: Michael Winterbottom

Nel ’96 torna alla tv, dirigendo ancora per la BBC uno straordinario Robert Carlyle in Go now. Anche qui si pone al centro l’individuo e si affrontano temi spinosi e delicati: Carlyle interpreta infatti un operaio inglese che si scopre affetto da sclerosi multipla. L’irrompere di questo dramma sconvolge la normalissima vita di Nick/Carlyle, i suoi rapporti umani, ma lui, con straordinaria forza e grazie anche all’aiuto di chi caparbiamente gli resta vicino, riesce a non darsi per vinto, e a compiere il duro percorso verso l’accettazione della malattia e il raggiungimento di un nuovo equilibrio. Tuttavia, non è un film “patetico”, giocato sulla compassione e sulla commozione, è anzi fiero e battagliero, come il suo protagonista. Inoltre, il film è stato scritto da chi ha vissuto in prima persona l‘esperienza (Paul Henry Powell, assieme a Jimmy McGovern). Si manifesta dunque qui la passione documentale di Winterbottom e la sua determinazione a non cadere in facili stereotipi.

Il regista si dedicherà ancora ad indagare la sfera dei rapporti umani, all’interno della coppia e nel nucleo familiare in special modo, in alcune pellicole successive: I want you  (1998) e With or without you: il primo su un rapporto d’amore ossessivo, il secondo riguardante un triangolo amoroso (1999); Wonderland (1999), quadro di famiglia moderna dai rapporti inariditi, in cui i problemi si moltiplicano, perché le tre figlie (Molly/Molly Parker, Nadia/Gina McKee, Debbie/Shirley Anderson) sono a loro volta alle prese con la difficile gestione delle loro vite di relazione e con la genitorialità; 9 songs (2004), storia di sesso senza amore tra due giovani, scandita dalla musica e dalla frequentazione di concerti, da cui il titolo. Tenta la riflessione su una sessualità che allontana anziché avvicinare, accomunando la sensazione che ne deriva alla solitudine che prova il protagonista, anni dopo, in una spedizione scientifica tra i ghiacci.

A dimostrazione del suo eclettismo, delle tante passioni che lo portano in territori sempre diversi – qui di certo gioca l’amore per la letteratura inglese, studiata a Oxford- nel ’96 inaugura anche un altro filone del suo cinema: quello delle trasposizioni su grande schermo di opere letterarie. È infatti alle prese con Giuda l’oscuro di Thomas Hardy, che diventa Jude. Proseguirà su questa direttrice nel 2000 con Le bianche tracce della vita (The claim), ancora tratto da Hardy, e poi forse con la sua scommessa più azzardata in campo di trasposizioni letterarie: Tristram Sandy – A cock and bull story (2005), tratto dal romanzo di Laurence Sterne, già di per sé al di fuori di ogni regola narrativa, trasgressivo e rivoluzionario all’epoca – siamo nel ‘700. Insomma, le caratteristiche adatte per interessare il fondatore della Revolution Films.

Nel 1997 intraprende un altro cammino, quello più spiccatamente impegnato e politico del suo cinema. Con Benvenuti a Sarajevo affronta infatti per la prima volta il tema della guerra – qui quella in ex Jugoslavia – e degli effetti devastanti di questa sulla vita di chi abita i territori del conflitto. Anche qui c’è una fonte documentale da cui è tratto lo spunto della storia: il racconto da parte del giornalista britannico Michael Henderson della sua esperienza a Sarajevo e del tentativo di portare l’attenzione del mondo sulla condizione di un gruppo di bambini in un orfanotrofio, lasciati sotto i bombardamenti nell’indifferenza generale. È dunque la storia di una presa di coscienza da parte del giornalista, che agisce oltre i limiti del suo mestiere, ma si spende in prima persona per salvare delle vite. Ed è insieme una critica a tutte le forze impegnate nel conflitto, che non si curano dei possibili “danni collaterali”. Ma è anche una denuncia forte contro chi vi assiste senza far nulla: la comunità internazionale, i mezzi di comunicazione e pure i comuni cittadini di tutto il mondo, che assistono alla spettacolarizzazione del tutto, senza più neppure un barlume d’indignazione. È proprio una reazione emotiva forte da parte di chi guarda, quella che Winterbottom cerca, invece, chiamando tutti alle proprie responsabilità. Tuttavia, la pellicola è forse troppo scopertamente a tesi e non riesce a sfuggire a una certa quota di retorica. Ciò che invece non accade in Cose di questo mondo  (2002). Nel frattempo c’è stato l’11 settembre, la guerra in Afghanistan e quella in Iraq sono in corso e il tema della popolazione in fuga dal conflitto è attualissimo. In questa pellicola – ancora una volta e assai più delle precedenti, dal piglio documentaristico – girata in digitale nei luoghi raccontati, assistiamo alle peregrinazioni di due giovani (Enayat e Jamal) da Peshawar  verso l’Inghilterra, in un viaggio a tappe dove rischiano la vita e sopravvivono con mezzi di fortuna, passando per il Kurdistan, poi Istanbul e finalmente l’Europa: prima l’Italia, poi Parigi e infine Londra. L’approccio documentaristico quasi fa dimenticare che si tratta di un film ed è efficacissimo nel mostrare tutto il necessario senza cedere a sentimentalismi e retorica. Il regista lascia parlare l’azione e il risultato è di grande forza. Il film, selezionato per vari festival internazionali, come spesso accade a Winterbottom, gli vale l’Orso d’Oro al Festival di Berlino e il Premio come Miglior Film non in inglese ai BFTA. Non contento, il regista inglese continuerà ad esplorare l’universo dell’umanità in guerra e delle atrocità cui gli uomini si trovano sottoposti in queste circostanze in altre due pellicole, sempre attualissime. The road to Guantanamo (2006), premiato ancora a Berlino con l’Orso d’Argento, tocca un nervo tuttora scoperto riguardo gli USA e la loro gestione dei prigionieri di guerra. È la storia di quattro ragazzi pakistani che nel 2001 tornano nel loro paese d’origine perché uno di loro sta per sposarsi. Decidono poi di andare a portare aiuto in Afghanistan alla popolazione vittima dei bombardamenti e lì, in tre vengono arrestati con l’accusa di terrorismo e portati a Guantanamo, dove subiscono torture. Saranno liberati e completamente scagionati due anni dopo. Anche in questo caso Winterbottom fonde documentario e film: ci sono le testimonianze dei ragazzi coinvolti e la ricostruzione della vicenda da parte del regista. E se la parte iniziale, che riguarda il viaggio e le vicende precedenti all’arresto rimanda al precedente Cose di questo mondo, il racconto della detenzione a Guantanamo non potrebbe essere più efficace e costringe ad una riflessione sul significato delle parole “democrazia” e “civiltà”. Ultima pellicola firmata dal regista inglese sui temi guerra/terrorismo è A mighty heart – Un cuore grande (2007), dove sceglie Angelina Jolie come protagonista per interpretare il ruolo di Mariane, moglie del giornalista Daniel Pearl, inviato dal Pakistan del Wall Street Journal, rapito e ucciso dai terroristi. Il film è tratto dal libro di Mariane che ricostruisce la vicenda. Ancora una volta lo stile è documentaristico, la direzione mira a restituire l’atmosfera concitata creatasi intorno alla donna nei frenetici giorni che seguono il sequestro. Il fulcro della vicenda qui è proprio Mariane/Jolie. In secondo piano, stavolta, le riflessioni di carattere generale sul contesto socio-politico. Riflessioni socio-politiche che invece non possono mancare, assieme a quelle economiche, nel più recente documentario sul sistema capitalistico e  le sue storture The shock doctrine (2009), in cui Michael Winterbottom, che dirige insieme a Mat Whitecross, si avvale della collaborazione di Naomi Klein.

Abbiamo però parlato dell’eclettismo del regista di Blackburn. Ebbene, nella sua carriera non si è fatto mancare un’incursione nella fantascienza con Codice 46 (2003), in cui ha diretto Tim Robbins e Samantha Morton. Così come, da appassionato di musica quale è, nonché conoscitore dell’Inghilterra, non poteva farsi sfuggire l’occasione di realizzare un film sulla scena punk e post-punk di Manchester e più esattamente sull’etichetta discografica che ha tenuto a battesimo molti dei suoi protagonisti: Joy Division, New Order, Happy Mondays tra gli altri, e ha gestito il locale simbolo dell’epoca, che ha ospitato negli anni anche Chemical Brothers e Moby. Si tratta della Factory Records e del suo fondatore Tony Wilson (Steve Coogan). Il film è 24 Hour Party People (2002) e ricostruisce le gesta del vulcanico produttore, oltre ai suoi rapporti con i gruppi in questione, cercando al tempo stesso di rendere l’atmosfera della Manchester degli anni ’80 e ’90, altrimenti eloquentemente detta “Madchester”.

E sempre da amante della musica, nonché amico dei Coldplay, Michael Winterbottom ha diretto anche il loro primo video: quello del brano Bigger Stronger, in cui ritroviamo la sua passione per l’elemento acquatico.

Per tornare alle produzioni più recenti, infine, due anni fa il regista ha scelto Colin Firth per il suo Genova, pellicola di ambientazione italiana ancora sul tema dei legami affettivi e familiari, messi alla prova da eventi estremi. Infine, e siamo a quest’anno, l’ultima sfida: ha diretto Casey Affleck nel thriller The killer inside me, in cui l’attore interpreta Lou Ford, vicesceriffo psicopatico nel profondo sud degli Stati Uniti, negli anni ’50.

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