Il cacciatore: Michael Cimino racconta la morte dell’American Dream

Il capolavoro di Michael Cimino torna al cinema in versione restaurata dal 22 al 24 gennaio. È l'occasione per riscoprire il film con cui il regista ha iniziato a smascherare le menzogne dell'American Dream.

Il cacciatore

Nel 1978 esce al cinema Il cacciatore, opera seconda di Michael Cimino. La guerra in Vietnam si è conclusa da appena tre anni ed è ancora una ferita apertissima per gli Stati Uniti, nonché sostanzialmente un tabù. Per quanto già durante lo svolgersi del conflitto ci siano stati film che hanno cercato di affrontare tale evento, è solo a guerra conclusa che si ha avuto modo di avere una più completa visione d’insieme su quanto accaduto e sul suo lascito. Prendono dunque vita a partire dalla seconda metà degli anni Settanta le opere che meglio hanno saputo mostrare ciò che davvero questo conflitto ha causato, specialmente a livello psicologico.

 

Il film di Cimino (che vincerà poi di 5 Premi Oscar incluso quello come Miglior film) non solo è tra queste, ma è anche un primo significativo tassello nella filmografia di un regista che con ogni sua opera ha sfidato platealmente la mitologia delle origini del suo Paese, il successivo tradimento da esso perpetrato verso gli ideali su cui si fondava e il suo lascito nei confronti delle nuove generazioni. Una sfida che ha dunque inizio con un’opera tanto imponente quanto controversa, che si fa metafora degli Stati Uniti cogliendo il Paese nel suo passaggio da un periodo di spensieratezza – in realtà solo apparente – ad uno irrimediabilmente segnato da un generale e profondo senso di smarrimento.

Prepararsi alla guerra

Un passaggio ben evidente in Il cacciatore, film a cui viene talvolta rivolta la critica di avere un primo atto troppo prolisso. Si tratta grossomodo della prima ora delle tre totali del film, in cui facciamo la conoscenza dei protagonisti, apprendiamo che lavorano in una acciaieria, che sono dediti agli scherzi, alle scommesse spericolate e che uno di loro, Steven (John Savage), è ad un passo dal matrimonio. Proprio questo evento occupa la maggior parte di questa prima ora, con una festa chiassosa, che sembra non finire mai e che ad un occhio distratto potrebbe sembrare – appunto – eccessivamente prolissa. Ma è proprio questa prima ora “preparatoria” che permette poi di far acquisire un senso a quanto verrà dopo, costruendo le basi per un contrasto ancora oggi in grado di ammutolire.

Steven, insieme a Mike (Robert De Niro) e Nick (Christopher Walken, che per questa sua interpretazione vincerà l’Oscar come Miglior attore non protagonista) sono infatti in procinto di partire per il Vietnam. Per loro, membri della comunità russo-americana, sarà un modo in più per dimostrare il proprio amore per gli Stati Uniti, quasi come se quest’esperienza potesse fargli guadagnare la possibilità di considerarsi americani a tutti gli effetti. Con loro ignari del proprio futuro, questa prima parte del film è dunque segnata dalla spensieratezza, dalle risate, da quel sano cazzeggio che è parte integrante della natura dei protagonisti.

Lo ribadisce con maggior forza la sequenza ultima di questo primo atto, quella della caccia al cervo, che non solo dà al film il suo titolo originale – The Deer Hunter – ma ripropone tutti gli elementi fino a quel momento messi in gioco. Il gruppo di amici protagonisti si reca in montagna, chiassosi come non mai, dividendosi tra scherzi e alcol, ma sapendo perfettamente quando è il momento di tacere e lasciar parlare i fucili. In un attimo, dunque, si passa dalla gioia al senso di morte. E ancora, quando una volta conquistato il proprio trofeo tornano in città per festeggiare, quel clima di festa è interrotto da uno struggente brano suonato al pianoforte da uno di loro, che spegne le risate e ammutolisce tutti. La festa è finita.

Il cacciatore Christopher Walken
Christopher Walken in una scena di Il cacciatore

La morte dell’innocenza

Da lì ha inizio il racconto dell’esperienza in Vietnam di tre dei protagonisti, partiti per servire e difendere il proprio amato paese. Quel senso di morte, tanto anticipato da piccoli segnali nel corso della fondamentale prima ora (quell’inferno che è l’acciaieria, il silenzioso veterano alla festa di matrimonio, le taciute tensioni sentimentali tra i protagonisti) esplode ora in tutta la sua brutalità sullo schermo. Ma non è un vero e proprio scenario di guerra quello che Cimino vuole mostrarci, spostando quasi subito la propria attenzione sul raccontare il conflitto attraverso la nota metafora della roulette russa, a cui i soldati americani sono costretti a partecipare.

È attraverso questa che Cimino dona presenza scenica all’insensatezza del morire in guerra, dell’essere alla mercé del caso, del non sapere mai quando arriverà la propria ora. Ogni colpo che va a vuoto è motivo sia di sollievo sia di nuova tensione, generata dal non sapere quanto ancora la fortuna sarà dalla propria parte. Ecco allora che quanto fino a quel momento visto, anche grazie alla sua ampiezza capace di restituire un contesto apparentemente idilliaco, risulta congeniale a quanto segue, che è non un film di guerra bensì un film sugli orrori che questa (come tutte le guerre, d’altronde) può generare in chi ne fa esperienza diretta.

Il cacciatore, insieme a Taxi Driver (1976) e Tornando a casa (1978), si è infatti imposto come uno dei più significativi esempi di film incentrati sulla difficile esistenza dei reduci di guerra, incapaci e impossibilitati a reinserirsi nella società dopo aver assistito ad orrori che non si possono spiegare a parole. Mike, tornato in patria, non riuscirà mai a condividere con l’amata Linda (Meryl Streep) ciò che ha visto, che gli è stato inflitto e che ha a sua volta inflitto. Cosa che lo fa naturalmente sentire incompreso e turbato. Tutto il resto del film rifletterà dunque su tale dinamica, proponendo attraverso i tre protagonisti tre diversi modi di rapportarsi con quanto accaduto che hanno però un unico risultato: la disillusione nei confronti di un American Dream al quale non è più possibile credere.

Michael Cimino racconta l’altra faccia degli Stati Uniti

È questa una consapevolezza su cui Cimino è tornato più volte nel corso della propria carriera, segnata da noti alti e bassi (più economici che non artistici) e sul quale si potrebbe dire si fondi la sua intera poetica. Due anni dopo Il cacciatore, dove si proponeva dunque come un drammatico ritratto di una generazione tradita da quel paese in cui riponeva cieca fiducia, Cimino realizza I cancelli del cielo. Un’altra opera monumentale, con cui va più indietro nel tempo, alla fine dell’Ottocento, per individuare un ancor precedente tradimento nei confronti di quella fiducia. Una comunità di immigrati europei diviene qui l’obiettivo di uno sterminio in quanto colpevole dei continui furti di bestiame. Furti dovuti però alle estreme condizioni di povertà a cui venivano costretti dai ricchi baroni locali.

O ancora, in L’anno del dragone (1985) il veterano di guerra interpretato da Mickey Rourke porta avanti un’accesa battaglia contro la comunità cinese di New York, mentre in Verso il sole (1996) – suo ultimo lungometraggio – un giovane navajo affetto da un tumore incurabile rapisce un medico (interpretato da Woody Harrelson) affinché lo accompagni in un luogo mistico che è convinto potrà guarirlo. In tutti questi casi, Cimino propone una contrapposizione tra culture diverse, facendo emergere da questo contrasto la disillusione verso un sogno americano che non ha offerto la libertà che invece prometteva.

Il cacciatore Robert De Niro Meryl Streep
Meryl Streep e Robert De Niro in una scena di Il cacciatore

Sopravvivere all’American Dream

C’è dunque uno sguardo malinconico che attraversa l’intera opera del regista, che tramite i suoi personaggi – più o meno coinvolti nell’attuarsi di questo tradimento – mira a riflettere su cosa ne è stato di quella terra delle opportunità, macchiata in più occasioni dal sangue di quanti vi riponevano fiducia o capace di mandare a morire senza troppi scrupoli i propri figli in una giungla dall’altra parte del mondo. Davanti a questa consapevolezza, sembra rimanere poco da poter fare, come il ricercare un senso di comunità a cui aggrapparsi. Ecco allora che Il cacciatore si conclude con i protagonisti sopravvissuti che intonano “God Bless America”.

Una scelta, quella di questo brano, che all’occorrenza è stata vista con intenti patriottici o satirici. Sembra facile propendere per quest’ultima lettura, con i personaggi che continuano a celebrare – come dei novelli Giobbe – quell’America che ha però tolto loro ogni cosa. Cimino, nel corso di una lunga intervista rilasciata nel 2007, ha però offerto una chiave interpretativa più profonda e ambigua. “Quando le persone sono in difficoltà, hanno bisogno di fare qualcosa insieme. In questo caso si tratta di emettere un suono. E cantano questa canzone perché è una canzone che ogni bambino americano conosce a memoria. E quella canzone li riunisce come una famiglia”.

“Mentre cantano, è una prima colazione quella che stanno consumando, non un’ultima cena”, conclude Cimino. Quel canto diventa dunque il modo con cui i personaggi cercano di ritrovarsi, di ristabilire un contatto e da lì voltare insieme pagina. Sembrerebbe dunque esserci uno spiraglio di speranza per il futuro nel finale di Il cacciatore, ma per quanto ciò possa essere vero, non cancella l’orrore verificatosi, che ha spezzato per sempre l’innocenza di questi personaggi e con loro di un Paese intero. Il film, che si apre con un matrimonio, non può allora che chiudersi con un funerale. Mike, Steve, Linda, gli altri e gli Stati Uniti andranno avanti con le loro vite, ma non saranno mai più gli stessi.

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