Risvegli: la spiegazione del finale del film con Robert De Niro e Robin Williams

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Risvegli (Awakenings) è un dramma biografico del 1990 diretto da Penny Marshall, con Robin Williams e Robert De Niro, ispirato al libro-inchiesta di Oliver Sacks. Racconta la breve, intensa “rinascita” di pazienti catatonici grazie alla L-Dopa e ciò che quel miracolo temporaneo lascia a medici, familiari e agli stessi malati.

Negli Stati Uniti di fine anni ’60, il timido neurologo Malcolm Sayer (Robin Williams) accetta un posto in un ospedale pubblico del Bronx popolato da sopravvissuti all’encefalite letargica rimasti da decenni in uno stato di immobilità apparente. Sayer, più abituato alla ricerca di laboratorio che ai pazienti, intuisce che dietro quei corpi “spenti” c’è ancora coscienza.

Basato sul memoir Awakenings (1973) del neurologo Oliver Sacks, il film ottenne tre candidature all’Oscar (Miglior Film, Attore protagonista a Robert De Niro, Sceneggiatura non originale). È un’opera che combina rigore clinico e umanità, sostenuta da due interpretazioni memorabili.

Cosa succede nel film Risvegli (Awakenings)

Arrivato al Bainbridge Hospital, Sayer comincia a osservare i pazienti “statue”: non reagiscono al dialogo, ma rispondono a stimoli specifici (una palla lanciata, righe in movimento, musica). Intuisce che non sono “assenti”, bensì imprigionati in un parkinsonismo post-encefalitico.

Venuto a conoscenza dei risultati della L-Dopa nel Parkinson, ottiene con fatica fondi per una sperimentazione. Sceglie come primo caso Leonard Lowe (Robert De Niro), ammalatosi da adolescente e divenuto catatonico da anni. Dopo un avvio prudente, la dose giusta produce l’“impossibile”: Leonard si risveglia. Muove gli occhi, parla, cammina. Davanti allo stupore dello staff, Sayer estende la terapia agli altri pazienti e il reparto si anima: chi scrive, chi balla, chi telefona ai parenti dopo decenni.

Leonard assapora la vita sospesa nel tempo: i rapporti con la madre iperprotettiva, l’amicizia con Sayer e la tenera frequentazione con Paula (Penelope Ann Miller), giovane che viene a trovare il padre in reparto. Ma la L-Dopa rivela presto il suo lato oscuro: tolleranza, discinesie, tic, agitazione. Per mantenere l’effetto, Sayer aumenta i dosaggi, innescando un circolo di alti e bassi sempre più rapidi.

Consapevole del limite, Leonard chiede che la sua esperienza sia filmata “perché serva a qualcuno”. Prova a guadagnarsi autonomia (uscire da solo, ballare con Paula), ma i tremori e l’irrequietezza lo travolgono. Nonostante i tentativi di modulare la cura, i sintomi rimbalzano fino a riportarlo, lentamente, alla rigidità. Anche gli altri pazienti regrediscono: i “risvegli” erano reali, ma temporanei.

I temi del film

La coscienza intrappolata. Il film rende visibile l’idea che dentro il “paziente cronico” resti un sé integro, solo imprigionato. Il dettaglio clinico (gli stimoli, i riflessi, la finestra farmacologica) diventa metafora: la mente c’è, chiede di essere “raggiunta” con pazienza e inventiva.

Il tempo rubato e restituito. Leonard vive una mezza età concentrata in poche settimane: desideri, pudori, prime volte. Il suo risveglio non è solo clinico; è la ripresa di un cammino interrotto. L’opera interroga il valore delle esperienze brevi ma piene: vale la pena vivere un dono destinato a finire? La risposta è nel modo in cui quel tempo cambia tutti.

Etica della cura e relazione medico-paziente. Sayer non insegue la “cura” come trofeo, ma l’accesso alla persona. Il consenso, la gestione del rischio, il confronto con i familiari (la madre di Leonard) mettono in scena l’etica concreta della medicina: decidere insieme, documentare, accettare i limiti senza rinunciare alla dignità dell’oggi.

Il finale di Risvegli (Awakenings) spiegato

Quando la L-Dopa non regge più, Leonard chiede a Sayer di continuare a “vederlo” anche nella ricaduta: non vuole tornare un caso clinico, ma restare una persona. Le crisi motorie e l’iperattività lasciano spazio a una nuova rigidità; Leonard, con enorme sforzo, prova ancora a parlare, a scrivere, a fissare chi ama. È un congedo consapevole. La sua storia non viene “undo”, ma sedimenta negli altri come memoria e responsabilità.

Sul piano simbolico, l’“awakenings” più profondo è quello di Sayer: il medico schivo e ascetico capisce che la vita non può restare in laboratorio. Nell’ultima parte lo vediamo cambiare postura: si concede di prendere la mano dell’infermiera Eleanor (Julie Kavner), di uscire, di “stare” con gli altri. Ha imparato dai suoi pazienti che il nutrimento essenziale sono lavoro, gioco, amicizia, famiglia: la relazione, non solo la cura.

Il film non indulge nel cinismo (“tutto è stato inutile”) né nella favola (“torneranno tutti come prima”). Sceglie una terza via: ammettere il limite farmacologico e, insieme, affermare che quelle settimane hanno avuto un senso pieno. I pazienti hanno riso, camminato, telefonato; i familiari li hanno riabbracciati; i medici hanno visto oltre la diagnosi. La ricerca continua – su dosi, protocolli, alternative – ma l’eredità immediata è umana: la conferma che, oltre la chimica, c’è una comunità che può accogliere il dolore senza negarlo.

Per questo Risvegli commuove ancora: non celebra un miracolo mancato, ma l’etica dell’attenzione. Ci ricorda che “risvegliarsi” non significa guarire per sempre; significa, anche solo per un tempo breve, essere visti, chiamati per nome, ricollocati nel mondo. E che, qualche volta, sono i medici e i caregiver a destarsi, cambiando per sempre il modo in cui guardano i loro pazienti — e la propria vita.

Redazione
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