Al cinema dal 13 giugno, distribuito da Lucky Red, la storia di Dall’alto di una fredda torre (qui la recensione) nasce sul palcoscenico del teatro, quello sul quale Francesco Frangipane aveva già messo in scena la storia creata da Filippo Gili (qui anche autore della sceneggiatura) che sullo schermo vediamo interpretata da Edoardo Pesce e Vanessa Scalera. Loro i protagonisti della drammatica vicenda scelta dallo stesso regista per esordire alla direzione cinematografica e per parlare dell’angoscioso dilemma di due fratelli costretti a decidere della sorte dei due genitori, della vita e della morte di uno o dell’altro.
Un agghiacciante “gioco della torre” dal quale nessuno rischia di uscire indenne e che ci raccontano – insieme al loro regista – gli stessi protagonisti, nel film circondati da un cast di pregio completato da Anna Bonaiuto e Giorgio Colangeli. Sono loro i genitori di Elena e Antonio, coppia di anziani affetti da una rara malattia alla quale non sembra esserci cura. O meglio, dalla quale sarà possibile salvare uno solo di essi.
Il dramma di Dall’alto di una fredda torre
Questa la diagnosi dei due medici (Elena Radonicich e Massimiliano Benvenuto) che li seguono e che caricano i due figli della responsabilità di scegliere tra “papà e mamma” uno – e solo uno – cui regalare un futuro. Per una incredibile casualità, infatti, solo i geni di Elena potrebbero venire utilizzati, non quelli di Antonio, e così i due figli si trovano a vivere una doppia vita, nel tentativo di mantenere una normalità di facciata davanti ai genitori e insieme di prendere insieme la decisione più importante della loro vita, o di non prenderla, condannando entrambi i malati.
Francesco Frangipane e i suoi ‘figli’, Vanessa Scalera ed Edoardo Pesce
Come si prende una decisione impossibile?
FF: In realtà l’obiettivo è stato sempre quello di non fare un film a tesi, di non dare una risposta, anche perché mi auguro il senso del film sia quello di scatenare le domande dei protagonisti in ognuno di noi. A quel punto al pubblico non interesserà più quale sia stata la scelta di Elena o Antonio, ma quale possa essere la propria. Che sia una scelta di qualche tipo, o una non scelta, che comunque è una scelta anch’essa. So che i finali sospesi come quello che ho montato possono infastidire, perché lasciano lo spettatore con il senso di un pezzettino che ti manca. Però io credo che in realtà quel pezzettino non manchi, ma sia quello che ognuno porta a casa con sé.
Cosa avreste fatto voi nei loro panni?
VS: Io difendo la scelta di Elena. Anche perché il classico “vuoi più bene al papà o alla mamma” è un ricatto terribile, brutto, è una domanda che ci facevano da piccoli, e che è capitato anche a me di fare, da zia, magari, prima di rendermi conto di cosa avessi detto. Da lì è partito Filippo Gili per la sceneggiatura, dalla domanda più banale del mondo, poi è toccato a noi, e devo dire che per quanto conoscessi quello che chiamo il talento furente di Edoardo Pesce non pensavo di tradurre la chimica che avevo a teatro con l’attore che interpretava Antonio (che poi era lo stesso Benvenuto) con lui. Abbiamo creato una alchimia che credo si veda sullo schermo, come quella tra i gemelli, due cuccioloni, due che hanno delle carenze evidenti nella vita, non hanno compagni e non hanno figli.
EP: Fai bene a definirli dei bambinoni, interpretando Antonio anche io ho avuto questa sensazione. Oltre a quella di star costruendo un film sulle dipendenze, anche affettive, sebbene la loro famiglia non sia proprio disfunzionale, visto che si vogliono bene. Ma sotto sotto qualcosa c’è.
FF: Sì, i due fratelli sono molto legati, in simbiosi, e la situazione li fa tornare al passato, li costringe a un salto all’indietro, a tornare adolescenti, però con la consapevolezza di trovarsi di fronte a una montagna che non possono scalare. Vedendo il film, devo dire di esser stato davvero fortunato a poter esordire con degli attori di questo livello, che mi hanno fatto credere che fossero fratelli, gemelli, pur non assomigliandosi, perché hanno lavorato su delle complicità intime, sotterrane, che però si percepiscono.
Avete trovato delle similitudini tra voi, ancor prima che con i personaggi?
EP: Ci sono in effetti delle similitudini caratteriali tra me e Vanessa, nel bene e nel male. Siamo entrambi un po’ viscerali, diciamo.
VS: Purtroppo, a differenza di Elena, sono decisamente una istintiva.
EP: Pure io, un pochino…
Eppure qui fa un ruolo diverso dal solito, più tenero…
EP: Ultimamente ho la fortuna di poter scegliere, e sto cercando di approfittare dei ruoli che mi hanno proposto, non so se casualmente o perché sono io che ho bisogno di aprirmi su certe cose, perché nella vita sono il contrario di come appaio, un po’ anaffettivo, e tendo a nascondermi dietro la maschera del guascone per creare una certa distanza. Questo film – e un altro che ho fatto, nel quale faccio un papà – mi ha dato la possibilità di tirare fuori delle cose che nella mia vita non riesco a far emergere, a meno di bere un bicchiere di vino. È stata un’occasione per lavorare su alcune parti di me.
Eppure Vanessa ha detto che lei è stato perfetto per un ruolo così morbido, meno conflittuale, e Francesco, il regista, che lei ha quella fragilità, anche se non la fa vedere…
EP: Riesco a farlo nella comfort zone che è il set, in un film, come questo poi, con una location bella come Gubbio, l’atmosfera particolare che si è creata, e poi questo personaggio, un solitario con un rapporto speciale con il suo cavallo e con la natura. Un uomo che definirei in ascolto.
La magia del cinema, insomma. Ma il cinema ha ancora una sua forza?
VS: Sì, io ci credo. Basti vedere il film di Paola Cortellesi. Io ho amici in Puglia, a casa, che non vanno al cinema nemmeno per vedere me e sono riuscita a parlarci di cinema per la prima volta. Vuol dire che funziona se diventa un rito collettivo. Il problema è che noi parliamo sempre di film che non vede nessuno.
EP: Le produzioni non sono molto coraggiose. Se in un film c’è Favino non ci sono problemi, ma molti soggetti, molte proposte, fanno fatica. Ci sono troppi condizionamenti, paletti, se fai qualcosa contro il sentire comune non ce la fai. Ma il cinema dovrebbe fare proprio questo. Se ci omologhiamo diventa difficile trattare certi temi. Come fanno quelli della A24, o come fa questo film, che ha un tema molto forte.
VS: Se un attore smette di pensare che quello che fa non possa essere condiviso è finita. Noi siamo qui non solo perché ci piacciamo tanto, per soddisfare un ego enorme e vederci sullo schermo, ma anche perché crediamo in quello che facciamo. Se iniziassimo a pensarla diversamente, questo mestiere non avrebbe più senso, lo faremmo solo per noi stessi.