Festival di Roma 2014: Richard Gere presenta Time Out of Mind

“Buongiorno a tutti!”, Richard Gere si è presentato come una vera rock star, con una mano in tasca e l’altra a salutare la folla di giornalisti accorsi per sentirlo parlare del suo ultimo film, Time Out of Mind, presentato al Festival di Roma 2014 e per il quale Gere è protagonista assoluto e produttore. Un’esperienza che l’ha messo decisamente in condizione di approcciarsi al progetto in maniera diversa, come lui stesso racconta.

 

“La sceneggiatura mi è stata mandata più di dieci anni fa e conteneva già il seme di questo film – ha cominciato Richard Gere in merito alla genesi del film – Non pensavo di poter fare quel film allora, ma lo script risaliva addirittura agli anni ’80. E’ una di quelle sceneggiature che mi hanno catturato.”

Durante questo viaggio nel mondo dei senzatetto ha scoperto qualcosa che ancora non sapeva?

“Ho fatto ricerche per tutti i dieci anni in cui ho voluto realizzare questo film, quindi durante quest’ultimo anno non ho scoperto niente che già non sapessi, è stata una sorpresa continua. Abbiamo deciso che la realizzazione del film sarebbe dovuta essere invisibile. Sarei dovuto essere io, sui marciapiedi, ma l’attrezzatura e la troupe sarebbe stata nascosta, per esempio dietro le vetrine. Temevano che non funzionasse, che potessi essere riconosciuto dalla folla, perciò abbiamo fatto il primo test nel cuore di New York, nel Greenwich Village, dove c’è una forte concentrazione di attività artistiche e dove potevano essere concentrati molti dei nostri potenziali spettatori. Con mia grande sorpresa, nessuno mi ha riconosciuto. Avendo girato in digitale, potevamo permetterci riprese prolungate, credo che la prima sia durata circa 45 minuti, ma nessuno si è mai fermato a guardarmi davvero in faccia. La cosa che avvertivo, fin da due isolati di distanza, era l’indifferenza nei miei confronti, poiché mi identificavano come un barbone.”

Cosa ha provato nel chiedere l’elemosina?

“Vengo dalla tradizione britannica, dove il gesto dell’elemosina (‘begging’ chiedere pregando in inglese, ndr) ha un significato diverso da molte altre culture. Nella maggior parte dei casi chi elemosina viene visto come qualcuno che cerca denaro per se stesso, per mangiare, bere o anche drogarsi. Ma per noi l’elemosina equivale a un’offerta, cioè offrire ai passanti la possibilità di compiere un’azione positiva, e avere perciò del merito. Nella nostra condizione di cineasti, noi stavamo facendo la stessa cosa, offrivamo ai passanti una possibilità. Ovviamente non potrò mai provare cosa voglia dire elemosinare, non mi servono né soldi né cibo per sopravvivere, e rimarranno perciò esperienze completamente diverse.”

Time Out of MindLa sua è una scelta che va verso piccoli film, girati in tempi stretti e con budget irrisori, che si piazzano al di fuori degli schemi e degli studios. Secondo lei è questo il futuro?

“Penso che sia il futuro non solo per la mia carriera ma per il cinema serio in generale. Queste produzioni indipendenti realizzano film diversi, che magari anni fa trovavano spazio nella produzione degli studios, ma che ora non essendo commercialmente appetibili non vengono più fatti, e bisogna allora trovare il modo di farceli da soli. Nessuno fa soldi con questi film, ve lo assicuro, ma è comunque il futuro.”

Qual è stata la differenza nell’interpretare questo ruolo, così diverso dai suoi precedenti di uomini ricchi e di successo? 

“La tecnica attoriale è la stessa, la differenza è a livello filmico. Non è un film che segue una trama, ci interessava rendere l’idea della sensazione, di cosa può essere vivere in questo modo, e dovevamo capire non solo come farlo ma anche come renderlo efficace per due ore.”

Che accorgimenti tecnici ci sono stati da parte del regista?

“Guardando il film vi accorgerete che in ogni inquadratura vi è una stratificazione di densità, la camera è fissa, a volte si muove ma in maniera impercettibile, non suggerisce dove allo spettatore dove guardare e spesso è difficile capire dove mi trovo esattamente nell’inquadratura. Allo stesso modo funziona l’uso del suono, che qui non sottolinea banalmente l’azione, ma le va contro, creando una cacofonia, un contrappunto.”

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