La 47a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, conclusasi pochi giorni fa, ha dato l’opportunità alla città e ai tanti cinefili interessati, di assistere a uno degli appuntamenti più speciali e istruttivi del Festival: l’incontro con il regista Bernardo Bertolucci. L’evento, che si è svolto sabato 25 giugno, nella cornice del Teatro Sperimentale di Pesaro, ha visto come conduttori due grandi teorici del cinema, nonché storici fondatori del Festival del Cinema di Pesaro, Bruno Torri e Adriano Aprà. Torri ha cominciato l’intervista, definendo il maestro cofondatore del Festival di Pesaro; la mostra nel 1965 nasceva con il preciso intento di mostrare quel tipo di cinema nuovo, che così poca visibilità aveva in quegli anni. E Bertolucci, che fin dai suoi esordi è stato un cineasta con la volontà di sperimentare la tecnica e lo stile del cinema ne era un perfetto esempio.

 

Ricordo con piacere – conferma il regista – quando nel ’66, ospite del Festival come attore di un film di Monte Hellman, c’era Jack Nicholson.Con lui, ho stretto subito una forte amicizia soprattutto perché facevamo il filo alla stessa ragazza”. Bertolucci rievoca così i suoi esordi nel cinema: gli anni ’60 erano quelli in cui i cineasti italiani che volevano rinnovare il linguaggio cinematografico, vivevano con maggior disagio il loro lavoro.

Prima della Rivoluzione fu proiettato a Cannes nel 1964 e il giorno dopo solo due giornalisti ne scrissero bene, ma uno dei due era Morandini che aveva fatto una parte nel film”. Nonostante tutto, Bertolucci sapeva che non si poteva più tornare indietro, in particolare dopo aver visto A Bout de Souffle di Godard. Da quel momento in poi il nuovo modo di fare cinema aveva lasciato indietro anni luce tutto il resto.

Ho girato i miei primi film nel momento in cui il neorealismo si stava trasformando in qualcosa di diverso, nella Commedia all’Italiana, maggior erede del neorealismo. Due erano i filoni cinematografici italiani più in voga, da un lato c’era la Commedia all’Italiana, dall’altro gli Spaghetti Western. Io però non accettavo la regola del gioco e ho deciso di realizzare altro, pur continuando a essere attratto dal western: seguivo tutti i film di Sergio Leone. Un giorno a Roma – continua il regista – sono andato a vedere Il buono, il brutto e il cattivo. Il giorno dopo ho ricevuto una chiamata di Sergio Leone. Mi chiedeva perché ero andato alla proiezione del suo film, mi aveva visto dalla cabina di proiezione. Gli risposi in maniera diretta ‘Mi piace come filmi il culo dei cavalli’. In genere i cavalli nel western erano ripresi di profilo, ma Leone e Ford avevano una predilezione per le enormi chiappe dei cavalli”. E fu proprio grazie a questabizzarra risposta che si trovò coinvolto nella scrittura della sceneggiatura di C’era una volta il West, insieme a Dario Argento.

Adriano Aprà, amico di lunga data del regista, nonché suo primo critico, (quando da giovanissimi, lui, Bertolucci e Zavattini si incontravano e Aprà criticava le troppe inquadrature dal basso presenti nei primi cortometraggi di Bertolucci) ha proseguito l’intervista chiedendogli di raccontare quel salto che ha portato il maestro dritto nel cuore del pubblico, avvenuto con Il Conformista (1970).“Inizialmente tutti i film che giravo piacevano probabilmente solo a una ristrettissima cerchia di parenti e amici cinefili; io e Glauber Rocha chiamavamo i nostri film miura, dal nome di una razza di tori che sono i più indomabili che esistano. I nostri film erano talmente indomabili che in sala, a parte i nostri parenti, non c’era neanche uno spettatore. Per troppo tempo – continua il regista – negli anni ’60 abbiamo creduto che se un film otteneva un grande successo da parte del pubblico, avesse necessariamente al suo interno qualcosa di diabolico. Nel ’69 però mi resi conto che invece era possibile condividere il piacere che provo nel fare un film con quello che prova il pubblico nel guardarlo”. Con questa consapevolezza Bertolucci gira Il Conformista e Ultimo tango a Parigi (1972).

Da quel momento in poi, il successo diventa internazionale e ai limiti dell’invasività.Ultimo tango a Parigi è uscito in tutti i paesi del mondo tranne la Spagna di Franco da cui partivano treni tutti i giorni per la più vicina cittadina francese dove era possibile vedere il film. “Quando tutte le grandi Major americane volevano lavorare con me – afferma il regista – ho deciso di realizzare un film, facendo in modo che la Paramount, la United Artists e la 20th Century Fox pagassero per la più grande bandiera rossa mai vista al cinema. Per la parte di Olmo in Novecento(1976) avrei voluto scritturare un attore sovietico, da abbinare a quello americano (Robert De Niro), tutto questo a causa del senso di onnipotenza che derivava dall’enorme successo che riscuotevo, tanto da voler addirittura cercare di costruire un ponte tra Stati Uniti e Unione Sovietica. In realtà, il film fu un grande successo in Italia ma non uscì negli Stati Uniti, e così fallì la mia idea di esibire negli Usa questa bandiera rossa. C’era un problema di lunghezza eccessiva che la Paramount (lo Studio più di destra di tutti) sfruttò per non far uscire Novecento in America”.

Per il successo, il senso di onnipotenza, e probabilmente per altre ragioni, Bertolucci entra in analisi. “Mentre nel 69 cominciavamo a scrivere La strategia del ragno – conferma il regista – ho iniziato l’analisi. Devo dire che inizialmente ne ero entusiasta non tanto per l’effetto terapeutico ma per l’allargamento della visione che mi consentiva. Già ai tempi del Conformista dissi in un’intervista che nei titoli di testa avrei dovuto mettere il nome del mio analista. In quel periodo mi sembrava addirittura di elaborare molto di più i miei film nelle sedute di psicanalisi che in quelle di sceneggiatura. La visione che si acquista facendo analisi è stata fondamentale in tutto il mio lavoro, specialmente nell’approccio ai personaggi. Tra i nomi di fornitori di obiettivi del cinema bisognerebbe inserire anche il nome di Sigmund Freud”.

Altra caratteristica imprescindibile quando si parla di Bertolucci, è la sua essenza cosmopolita; il suo desiderio di uscire dai confini e perdersi in luoghi del tutto sconosciuti, ha condotto il regista a trasferirsi per un periodo in Cina per girare L’ultimo imperatore (1987). “Era il 1984, e non giravo più nulla da quattro anni. Mi trovai così con la voglia di andare il più lontano possibile dall’Italia: erano anni in cui nel nostro paese stava prefigurandosi quello che sarebbe scoppiato poi con Tangentopoli nel ’92, ma io lo avvertivo già dagli anni Ottanta, per cui andare in Cina fu una gioia. Lì incontrai giovani registi come ChenKaige e ZhangYimou, per cui cominciai a capire che c’era una Nouvelle Vague anche in Cina”.

L’incontro è terminato con un’istruttiva considerazione di Aprà sulla distinzione che esiste tra cineasti della realtà e cineasti dell’immagine. Nel primo caso la macchina da presa ha un rapporto naturale con le cose che guarda, nel secondo invece si sente che l’immagine non è la realtà. Non c’è l’illusione ma costruzione della realtà. “In una sequenza del Conformista – conferma il regista – Trintignant parla con il suo vecchio professore della caverna di Platone. Pensai che inserire questa scena fosse importante per esprimere l’identità del cinema”. Le ombre che il fuoco proietta sul muro di fronte ai prigionieri della caverna sarebbero quindi un cinema ante-litteram.

Un evento speciale dunque quello avvenuto alla 47a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, che ha offerto la possibilità unica di conoscere più da vicino il cinema e la persona di uno dei maggiori registi italiani e internazionali del cinema moderno.

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