20 Days in Mariupol: recensione del documentario di Mstyslav Chernov

Il documentario di Mstyslav Chernov costringe a confrontarsi con immagini di guerra inedite per intensità, drammaticità e urgenza di risposte.

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Un fortissimo scroscio di applausi ha interrotto il silenzio assordante durato tutti i 99 minuti della proiezione pomeridiana del documentario 20 Days in Mariupol diretto da Mstyslav Chernov – con il supporto del collega di una vita Evgeniy Maloletka – presentato durante Mondovisioni, la rassegna di documentari su attualità, diritti umani e informazione (all’interno della quale è stato presentato anche Praying for Armageddon) curata da CineAgenzia per il Festival di Internazionale a Ferrara, che si è svolto nella città dell’Emilia-Romagna dal 29 settembre al 1 ottobre.

 

Film, continua a filmare

Filma, continua a filmare”, queste sono le parole che vengono ripetute più spesso all’interno di 20 Days in Mariupol. Continua a filmare, perché il mondo ha bisogno di sapere quello che sta accadendo qui; continua a filmare perché i colpevoli di questo scempio vedano gli occhi di chi stanno uccidendo; continua a filmare affinché non ci si volti dall’altra parte. A pronunciare queste frasi sono militari, civili, medici che esortano i giornalisti dietro le videocamere per paura che ad un certo punto essi smettano, per pudore, per l’orrore, per il dubbio che la testimonianza sfoci in voyeurismo e pornografia del dolore. Ma in questo caso non c’è scelta, e lo sanno bene i reporter di The Associated Press, infatti non si esimono mai dal puntare i loro obiettivi in direzione di donne incinte col bacino frantumato, bambini neonati in arresto cardiaco, ragazzi di neanche vent’anni con le gambe esplose mentre giocavano a pallone per la città prima di un raid aereo improvviso.

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Mstyslav e Evgeniy sono gli unici due giornalisti rimasti nella città di Mariupol durante tutti i primi venti giorni dell’assedio, quindi le immagini che ci vengono proposte all’interno del doc le abbiamo viste e riviste, sui giornali, in TV, sui social media. Ma mai in questo modo, non con questa forza narrativa ed emotiva, mai con questa devastante percezione di mancanza di senso. Significativa in questo caso è l’immagine di una donna che non riesce più a reggersi in piedi dopo aver appreso che suo figlio di appena 18 mesi non ce l’ha fatta, che i medici non sono riusciti a rianimarlo. La donna sostenuta dal marito urla verso il cielo “Perché? Perché?” Non riesce a darsi una spiegazione a tutto quel male e a quel dolore.

I due reporter si trovano più volte in situazioni di pericolo, sono costretti a nascondersi nelle case, nei seminterrati, si trovano schiacciati contro le pareti assieme a decine di persone sfollate, assistono in prima persone all’attacco scellerato contro un ospedale che ospitava un reparto maternità. Eppure non si tirano mai indietro, sono pronti, sempre pronti a rialzarsi, a gettarsi ancora più dentro al pericolo, forse nella speranza di far arrivare quelle riprese, quelle foto, questo documentario, alle persone responsabili di quello scempio e far balenare in loro l’idea che basta così, che non c’è motivo di fare ancora peggio. Ovviamente, come sappiamo, quel momento, ad oltre un anno dallo scoppio del conflitto, non è ancora arrivato.

20 Days in Mariupol recensione

Radiografia di una guerra

Vedere 20 Days in Mariupol è come essere gettati in prima persona nell’orrore della guerra. Lo spettatore non può far altro che guardare, guardare e ancora guardare. Non c’è neanche il tempo di pensare, di immagazzinare tutte quelle informazioni. Da un certo punto in poi gli occhi diventano pesanti, hai la testa che ronza e sei teso come se anche tu fossi in pericolo di vita. Vorresti che la cosa finisse presto o che ci fosse un lieto fine. Ma come i due giornalisti di AP hanno continuato a filmare, lo spettatore non può far altro che guardare. E così come se lo chiedono i due reporter, anche chi guarda comodamente seduto sulla poltrona del cinema si chiederà, posso fare di più? Ci si sente inutili e in colpa. Si vorrebbe riuscire a fare di più. Ed è dura, è veramente dura.

La guerra è come una radiografia, fa vedere l’interno degli esseri umani. Chi è buono diventa più buono, chi è cattivo, diventa più cattivo” afferma uno dei medici dell’ospedale da campo della città e 20 Days in Mariupol riesce in un compito ancora più difficile, ci consegna una radiografia della guerra. Uno scenario agghiacciante, immagini fortissime, le voci delle persone che sono state vittime di quell’inferno; tutto, ogni momento, lascia con un senso di vuoto e di tristezza senza precedenti.

Sommario

20 Days in Mariupol è come essere gettati in prima persona nell’orrore della guerra. Lo spettatore non può far altro che guardare, guardare e ancora guardare, mentre il documentario che ci consegna una radiografia della guerra alla quale non si può in alcun modo rimanere indifferenti.

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20 Days in Mariupol è come essere gettati in prima persona nell’orrore della guerra. Lo spettatore non può far altro che guardare, guardare e ancora guardare, mentre il documentario che ci consegna una radiografia della guerra alla quale non si può in alcun modo rimanere indifferenti. 20 Days in Mariupol: recensione del documentario di Mstyslav Chernov