7 Sconosciuti a El Royale: recensione del film di Drew Goddard

7 sconosciuti a el royale

Film d’apertura della tredicesima edizione della Festa del cinema di Roma, 7 Sconosciuti a El Royale è l’opera seconda di Drew Goddard. L’idea dell’hotel come laboratorio del mondo e microcosmo dell’umanità non è certo nuova nel cinema hollywoodiano, per questo si rimanda il giudizio alla capacità dei singoli autori di plasmarla e attualizzarla secondo le esigenze artistiche personali o le urgenze politiche del tempo in cui vivono. Ci era riuscito Stanley Kubrick nel 1980 con Shining, quando il racconto degli orrori dell’Overlook Hotel sconvolse l’atteggiamento della critica nei confronti del genere horror e abituò gli spettatori ad un altro tipo di esperienza con la paura; l’epoca era abbastanza fertile e il regista così ispirato da scatenare nella coscienza americana un senso di ansia che il luogo fisico metteva in scena, ospitava, a cui dava una forma reale e immaginaria.

 

Ovviamente non è un racconto classico dell’orrore (eppure potrebbe sembrarlo, vista l’allucinazione in cui è immerso), tuttavia 7 Sconosciuti a El Royale di Drew Goddard – noto sceneggiatore di serie tv e candidato all’oscar per The Martian – condivide con il capolavoro di Kubrick la stessa concezione del luogo come casa-laboratorio dove vengono prodotte immagini più o meno realistiche della società: non siamo in Colorado, ma al confine tra Nevada e California, e laddove l’Overlook funzionava da epicentro  dell’inconscio collettivo con conseguente perdita dell’identità, questo El Royale di inizio anni Settanta manifesta i traumi di un paese che sta cambiando, nel bene e nel male, la decadenza del “sogno”, le ferite della guerra in Vietnam, la risposta delle sette religiose alle incertezze della politica, i danni perpetuati alla popolazione afroamericana e così via.

Questa fascinazione del reale si traduce sullo schermo in 7 Sconosciuti a El Royale nell’incontro tra sette personaggi che in comune hanno la voglia di riscatto e la volontà di redimersi, ognuno a suo modo, facendosi a pezzi prima di una fine imminente; di certo la visione di Goddard sulla storia è più ottimista di quella di Shining, secondo cui la vera utopia è accettare il fatto che le radici del male sono comunque nell’uomo e che questo non dovrebbe consolarci affatto. Piuttosto, in Bad Times at El Royale, si ribadisce – anche romanticamente – la possibilità che esista uno spiraglio tra l’orrore e la bellezza, e che in questo spiraglio l’arte, o una forma di comunicazione in generale, abbia un peso e un potere inestimabili. La scena finale del film ne è il perfetto testamento e il messaggio che il regista voleva trasmettere: fuori dal tempo e dalla civiltà, questo motel fatiscente situato al confine, dunque neutrale e indefinito, racconta più di quanto pensiamo la memoria americana e i danni che si ripercuotono nel presente.

Trailer di 7 sconosciuti a El Royale

- Pubblicità -