American Fiction, recensione del film con Jeffrey Wright

Il film ha già vinto l'Audience Award all’ultimo Toronto Film Festival 2023.

American Fiction recensione

Vincitore dell’Audience Award all’ultimo Toronto Film Festival, American Fiction, esordio alla regia cinematografica del regista Cord Jefferson – per la TV ha diretto episodi di Master of None, watchmen e Station Eleven – si presenta come una delle possibili sorprese in corsa per la prossima stagione dei premi.

 

American Fiction, la trama

Al centro della vicenda di questa commedia drammatica si trova lo scrittore in crisi Thelonious “Monk” Ellison (Jeffrey Wright), il quale si trova costretto a tornare nella casa natia vicino Boston per riunirsi con la disfunzionale famiglia. Stanco del modo in cui la società e l’industria editoriale continua ad abbracciare gli stereotipi sui neri in America, Monk scrive un manoscritto che in maniera satirica abbraccia qualsiasi retorica e appunto stereotipo sulla questione. Il problema arriva quando il libro trova l’attenzione di editori e successivamente il grande successo di pubblico, “costringendolo” dentro un personaggio che odia. Questa dicotomia non può che rendere ancora più complessa la sua vita privata.

L’idea di partenza di American Fiction possedeva tutte le carte in regola per farne una satira sociale di enorme presa e soprattutto graffiante descrizione del razzismo culturale ancora vigente negli Stati Uniti. Il regista e sceneggiatore sceglie invece un approccio maggiormente orientato alla rappresentazione psicologica del protagonista, inserendolo dentro le dinamiche di un dramma familiare che rende l’operazione decisamente più adatta ad andare incontro ai gusti del grande pubblico. E se questa si dimostra una scelta che quasi sicuramente pagherà di fronte all’opinione della critica e al botteghino statunitense, allo stesso modo non ci si può esimere dal chiedersi come sarebbe stato il film se Jefferson avesse osato rischiare maggiormente.

Un approccio cauto a una storia esplosiva

Ad American Fiction non si possono infatti trovare difetti tangibili che ne minano la riuscita, tutt’altro, ma neppure vedendolo si prova l’emozione di un lungometraggio che vuole scuotere, mettere veramente in discussione quello che racconta. Da un soggetto di partenza potenzialmente esplosivo e pronto per essere adoperato virando dentro la commedia dell’assurdo, ci saremmo aspettati un film sinceramente più sfrontato. Il che comunque, come anticipato, non va ad inficiare la riuscita di un prodotto capace di parlare al cuore dello spettatore, che affronta il tema della famiglia americana e del suo sgretolarsi di fronte a generazioni piene di preconcetti e frustrazioni.

Come protagonista Jeffrey Wright non avrebbe potuto fare un lavoro migliore nel dipingere la comunissima “medietà” di Monk, interpretazione perfetta anche perché calibrata grazie a una sorta di contrappasso su quella dei suoi colleghi (fratelli sul grande schermo) Sterling K. Brown e Tracee Ellis Ross.Un trio di attori generoso, preciso sia quando deve andare sopra le righe che nel rappresentare le pieghe malinconiche e soffuse dei rispettivi personaggi. La vera sorpresa di American Fiction si rivela però la meno conosciuta Erika Alexander, capace di imprimere profondità e orgoglio alla sua coraline, donna comune che si trova a incrociare la strada di Monk.

Il cinema nero americano ha cambiato pelle nel corso di questi ultimi anni, forse decenni. Lo spirito “arrabbiato” di un autore di frontiera quale è stato – e a conti fatti ancora è – Spike Lee ha lasciato il posto a un modo di fare e intendere cinema maggiormente cadenzato, che cerca l’appoggio dell’opinione pubblica più di quanto non voglia realmente scuoterla. American Fiction nel bene e nel male si presenta come specchio fedele e preciso di questo modo di fare cinema. All’interno di questo discorso il lavoro di Cord Jefferson possiede un suo valore indubitabile, allo stesso modo di un peso specifico calibrato con evidente intelligenza. Dal punto di vista prettamente artistico poco o nulla si può obiettare a un prodotto scritto, diretto e interpretato con sensibilità. Speriamo soltanto non venga sopravvalutato o peggio ancora innalzato al livello di film “arrabbiato”, perché allora le sue effettive dimensioni andrebbero certamente ridiscusse…

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