
Come catturare dunque la carnale fugacità dell’esistenza se non con un onnipresente cellulare di ultima generazione, un fidato terzo occhio che per quasi due anni ha ripreso incessantemente la vita che pulsava intorno a lui? Da una camera d’albergo a Parigi ad un’altra a Budapest, i percorsi intrecciano un tessuto del mondo contemporaneo, una vita veramente viva a cui aggrapparsi.

E’ proprio la poesia la forma prescelta per comunicare: oltre a monologhi scritti da lui stesso come espressioni del suo stream of consciousness, lunghi brani originali di Pier Paolo Pasolini, Arthur Rimbaud e T.S. Eliot si fanno tramite dei suoi contrastanti e sofferti sentimenti.
La decisione di catturare le immagini con un traballante smartphone rende le riprese inevitabilmente disturbate e disturbanti, tanto che lo spettatore a tratti è obbligato a distogliere lo sguardo.
Entrambe le operazioni sono volutamente eversive e stranianti, ma, guardando al risultato, decisamente azzardate: il film non riesce infatti a tenere i 75 minuti di durata e, seppure non manchi qualche altissimo momento lirico, l’insieme finisce per risultare un irritante monumento narcisistico del regista.
La pellicola inoltre è a dir poco confusa sul piano della realizzazione delle intenzioni, tutte buone intuizioni che troppo spesso però si concretizzano in modo scontato o disordinato.
La vera forza del film è invece la colonna sonora, multiforme e bellissima soprattutto laddove primeggia il violino dell’amico Alexander Barlanescu, suonato “come un urlo dell’anima”.
Ripensandoci, Amore Carne potrebbe essere uno stupendo video musicale, nel quale immagini e note si sposano senza bisogno della parola, presenza ingombrante incapace di dire l’indicibile.
