Amore Cucina e Curry recensione del film con Helen Mirren

Amore, cucina e curry Quattrodici anni dopo il dolcissimo viaggio nel gusto intrapreso con Chocolat, il regista svedese Lasse Hallstrom torna a solleticare i raffinati palati degli spettatori con una nuova commedia, The Hundred Foot Journey (in italiano, banalmente, Amore Cucina e Curry). Come tradisce il titolo tradotto nel nostro paese, è una storia che parla di cucina, tradizioni, relazioni umane ma soprattutto… cibo indiano.

 

A Mumbai, per colpa di accese rivalità politiche, la famiglia del giovane cuoco Hassan è costretta ad abbandonare la città,e in generale la loro terra, dopo che un terribile incendio ha spazzato via tutto quello che possedevano, inclusi i loro affetti più cari: su tutti, l’amata madre.

Il patriarca, chiamato da tutti Papa, spinto dalla voce ectoplasmatica della moglie (una sorta di guida karmika) decide di abbandonare l’Inghilterra- dove nel frattempo si è rifugiato con i suoi cinque figli- e di partire alla volta delle alpi, tra Svizzera e Francia.

Ma, quando in mezzo al nulla della campagna francese, i freni del loro furgoncino si rompono e si salvano da un terribile incidente, tutti i membri della famiglia avvertono questo episodio come un segno, decidendo così di restare nel piccolo borgo di Saint Antonin per aprire un ristorante di cucina indiana: la Maison Mumbai. La vera stella del locale è il figlio Hassan, cuoco dal talento innato e prezioso, un vero dono che subito cattura l’attenzione di Madame Mallory, l’altera proprietaria del lussuoso ristorante situato proprio di fronte alla Maison Mumbai. La convivenza tra le due culture all’inizio è difficile, se non impossibile: ma basterà l’amore per la cucina, il talento e un pizzico di suggestiva magia per mettere d’accordo tutti quanti.

Amore Cucina e CurryHallstrom torna a narrare quelle storie sospese tra dramma e commedia sentimentale che tanto sapientemente ha saputo raccontare nel corso della sua lunga carriera: il tono fiabesco serve a rendere accettabile, fruibile e poetica una realtà che spesso si allontana notevolmente da questi canoni mostrandosi sotto una veste più cinica e disillusa: l’incanto passa attraverso l’occhio della Macchina da Presa del regista svedese, nei suoi movimenti di macchina fluidi limpidi e patinati, immortalati da un’impeccabile fotografia. Eppure, nonostante dei buoni presupposti e una sceneggiatura promettente-almeno su carta- la pellicola si incarta su se stessa, forse vittima della fama di Hallstrom stesso: in troppi passaggi segue pedissequamente l’iter diegetico di Chocolat, ma è privo dell’appeal sensuale e del tono fiabesco, remoto e sospeso che caratterizzava l’altra pellicola dei primi anni 2000.

Nonostante le ottime interpretazioni degli attori, perfettamente in linea con i loro personaggi, il film manca di originalità e sembra una versione in salsa tandoori del suo ben più noto “cugino”, col quale condivide almeno in parte la location e le atmosfere.

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Ludovica Ottaviani
Ex bambina prodigio come Shirley Temple, col tempo si è guastata con la crescita e ha perso i boccoli biondi, sostituiti dall'immancabile pixie/ bob alternativo castano rossiccio. Ventiquattro anni, di cui una decina abbondanti passati a scrivere e ad imbrattare sudate carte. Collabora felicemente con Cinefilos.it dal 2011, facendo ciò che ama di più: parlare di cinema e assistere ai buffet delle anteprime. Passa senza sosta dal cinema, al teatro, alla narrativa. Logorroica, cinica ed ironica, continuerà a fare danni, almeno finché non si ritirerà su uno sperduto atollo della Florida a pescare aragoste, bere rum e fumare sigari come Hemingway, magari in compagnia di Michael Fassbender e Jake Gyllenhaal.