Con Thunderbolts* (asterisco incluso, e non per caso), la Marvel firma un capitolo inaspettato, e conclusivo, della sua Fase 5. Non è il film che rivoluzionerà il Marvel Cinematic Universe, né quello che riaccenderà la scintilla epica dei tempi dei Vendicatori Originali. È pur vero che dai tempi di The Avengers (era il 2012), il mondo è cambiato, e il modo di raccontare e accogliere le storie si è lentamente modificato. Ma proprio nella sua apparente “normalità” e nel suo tono da tragicommedia psicologica, Thunderbolts* riesce a emergere come una delle pellicole più sincere e coraggiose targate MCU degli ultimi anni.
Diretto da Jake Schreier (Robot & Frank), il film mette al centro un gruppo di anti-eroi dimenticati, feriti, rotti, con un vuoto non tanto nel fisico quanto nell’anima. Siamo lontani dalle roboanti battaglie cosmiche, dai viaggi nel tempo e dai multiversi coloratissimi. Thunderbolts* si muove tra ombre interiori, tra traumi irrisolti e la voglia – o la necessità – di riscatto. È un film che parla, senza retorica, di depressione, solitudine, senso di inadeguatezza e solitudine. E lo fa con ironia, ma anche con un’empatia rara nel panorama dei blockbuster.
I Thunderbolts* sono un gruppo di reietti
La protagonista assoluta è Yelena Belova, interpretata con profondità da Florence Pugh. Non più solo la sorella di Natasha Romanoff, ma una donna che lotta ogni giorno con il vuoto lasciato dalla perdita, dalla mancanza di senso della sua vita, con la sua identità incerta e un senso di colpa che la consuma. La sua prima scena, in cui salta giù da uno dei grattacieli più alti del mondo quasi come a sfidare la morte, è un manifesto visivo del dolore che si porta dentro. Non cerca la gloria, cerca sollievo.
Intorno a lei ruotano altri
personaggi “minori”, come John Walker (Wyatt
Russell), Ghost (Hannah John-Kamen),
Taskmaster (Olga Kurylenko), Red Guardian
(David
Harbour), e Bucky Barnes (Sebastian
Stan). Tutti accomunati da un passato di fallimenti,
errori, tradimenti, azioni atroci. Tutti – a modo loro – depressi,
arrabbiati, disillusi. Ma proprio per questo incredibilmente
umani.
La depressione è il Lato Oscuro
Uno dei temi più importanti del film è proprio la rappresentazione della depressione. Mai prima di Thunderbolts* la malattia mentale era stata tratteggiata in maniera così limpida, schietta e precisa in un blockbuster di questo tipo. E gli autori scelgono di raccontarla non solo visivamente e concretamente, ma di offrire anche una specie di via d’uscita dalle sue seducenti ombre: l’accettazione, la comprensione e la capacità di tendere una mano e chiedere aiuto. Non viene trattata come un ostacolo da superare con la forza bruta, ma come una condizione con cui convivere, che può diventare persino una forma di consapevolezza. Thunderbolts* ci dice che non è necessario essere perfetti per essere eroi.
Il personaggio di Bob Reynolds (Lewis Pullman), alias Sentry, incarna perfettamente questo dualismo. Apparentemente un ragazzo spaesato, fragile, reduce da un esperimento misterioso, si rivela essere una bomba emotiva pronta a esplodere. Il suo potere – potenzialmente devastante – nasce da un’oscura parte di sé, dal vuoto interiore (nei fumetti Sentry è abitato da una entità malvagia che si chiama proprio The Void – il vuoto) che è insieme nemico e compagno. Una metafora potente della malattia mentale: ciò che ci spaventa di più spesso è dentro di noi.
L’imperfezione, il dolore, la fragilità rendono questi personaggi reali e, paradossalmente, più forti. In un mondo in cui abbiamo già avuto Guardiani della Galassia o The Suicide Squad, non sembra un messaggio nuovo, tuttavia sempre più spesso è il “come” non il “cosa” a dare il giusto valore ai racconti, e il “come” di Thunderbolts* funziona benissimo, come da tempo non accadeva alla Casa delle Idee.
Thunderbolts* è costruito sulle relazioni
Se la trama in sé è forse la parte più debole del film – non succede moltissimo, e il “villain” non è un vero e proprio avversario quanto un burocrate affamato di potere che ha perso il controllo del suo progetto – ciò che colpisce è il modo in cui i personaggi interagiscono. Non si amano, non si fidano, spesso si odiano. Ma proprio nella difficoltà di comunicare nasce una forma di alleanza autentica. Nessuno di loro crede davvero di poter salvare il mondo, ma alla fine ci riescono, salvandosi a vicenda. Ed è questo che conta.
Jake Schreier sceglie un tono ibrido, a metà tra commedia amara e dramma esistenziale. Ci sono battute brillanti, momenti di autoironia (l’origine cinematografica del nome “Thunderbolts” è demenziale e geniale allo stesso tempo), ma anche scene di silenzio, di sguardi persi, di dolore trattenuto. La regia è attenta ai volti, più che agli effetti speciali (che comunque non mancano). Una scelta controcorrente per un film Marvel, e proprio per questo degna di nota.
Un cast che
funziona
Florence Pugh domina la scena, confermando ancora una volta il suo talento camaleontico. Yelena è sarcastica ma fragile, dura ma emotivamente instabile, e Pugh la interpreta con una verità rara. Wyatt Russell sorprende nel dare profondità a John Walker, sviluppando ulteriormente il personaggio spezzato che aveva già raccontato in The Falcon and the Winter Soldier, mentre Sebastian Stan riesce finalmente a rendere Bucky qualcosa di più di un “soldato d’inverno”, di una spalla, o di un fedele amico. Finalmente Barnes emana le vibe di un leader. Pullman è una rivelazione: il suo Bob è tenero, inquietante e imprevedibile. David Harbour e Hannah John-Kamen, che offrono momenti di alleggerimento ben dosati, sono forse i personaggi che più di tutti si avvicinano a uno stereotipo, ciò nonostante si amalgamano alla perfezione nella dinamica di gruppo.
Julia Louis-Dreyfus, nei panni di Valentina Allegra de Fontaine, è una presenza ambigua e affascinante, una villain/non-villain che strega inevitabilmente il pubblico. Un personaggio che sembra uscito da una dark comedy politica, più che da un cinecomic. La sua sete di potere mascherata da burocratismo è un’altra frecciatina sottile al mondo reale.
In fondo, una speranza
In un universo cinematografico dove la perfezione, l’invincibilità e l’epica sembrano essere tutto, in Thunderbolts* troviamo invece il valore della fragilità, del fallimento, della seconda possibilità. Ma soprattutto della comprensione, dell’accoglienza, il valore dell’ascolto e dell’aiuto reciproco.
In un’epoca in cui la salute mentale è sempre più centrale nel dibattito pubblico, Marvel sceglie (forse inconsapevolmente) di raccontare la storia di un gruppo di persone interrotte che cercano non di salvare il mondo, ma sé stesse. L’asterisco nel titolo non è solo un vezzo. È un avvertimento, una strizzata d’occhio: “non aspettarti il solito Marvel”. E per una volta, è un bene.
Thunderbolts*
Sommario
Nella sua apparente “normalità” e nel suo tono da tragicommedia psicologica, Thunderbolts* riesce a emergere come una delle pellicole più sincere e coraggiose targate MCU degli ultimi anni.