In un illustre concorso internazionale come quello del Festival di Cannes, c’è anche spazio per un’opera prima: Banel e Adama, della regista franco-senegalese Ramata-Toulaye Sy. Il film, pur non convincendo sotto ogni aspetto, è una delle sorprese di questa edizione del Festival cinematografico.
Banel e Adama: l’amore nel Senegal delle regole
Un giovane appena entrato nell’età adulta racconta una leggenda appresa durante l’iniziazione che lo porterà alla carica di capo villaggio, ereditata dal padre e dal fratello maggiore, entrambi morti prematuramente. Questa storia è proprio come la coppia che dà il titolo al film: isolata, come se fosse fuori dal mondo, ma governata da codici rigorosi. Banel (Khady Mane) sposa Adama (Mamadou Diallo) dopo la morte del fratello maggiore, secondo una tradizione che obbliga le donne a diventare le mogli di una famiglia, passando da un fratello all’altro secondo i capricci della vita, ma anche della morte.
Queste regole così ferree e imprescindibili che sostanziano la vita della comunità ci vengono introdotte fin dall’inizio, con i due coniugi che si pongono come ribelli in sfida alla tribù per la loro volontà di rifiutare titoli e obblighi, e per il loro desiderio di costruirsi una vita lontano dal villaggio. Banel rifiuta tutto, anche la maternità, più in generale il suo destino di donna, condannata a essere solo un grembo per perpetuare la stirpe dei capi a cui appartiene Adama. Il piano dei due amanti è chiarissimo: rifiutare il titolo di capo, costruire una casa alla periferia del villaggio di sabbia e tentare di conquistare la libertà tanto desiderata vivendo fuori dalla comunità.
Un viaggio tragico immerso nella superstizione
Molto interessante è una seconda
dimensione che Banel e Adama introduce: quella
della superstizione e del modo in cui i segni e il mondo vengono
interpretati alla luce dei divieti sfidati. Le case di sabbia sono
considerate maledette e le azioni di Adama
profanano la tradizione, portando siccità, morte e distruzione in
questa piccola e fragile area nella savana. Il susseguirsi di
problemi che intervengono, portando a un cambiamento
nell’atteggiamento del giovane marito, contribuirà a far
precipitare il film nella tragedia. Adama, che prima si ergeva con
orgoglio davanti ai genitori e ai coetanei, ora si inchina e
scompare gradualmente dalla vista di Banel. Lo
status quo e le tradizioni riprendono il controllo delle sue
azioni, con grande disperazione della donna che pensa solo a lui e
non vuole più aspettare di trasferirsi nella loro nuova casa.
L’impazienza si trasforma quasi in follia: Banel è pronta a fare
qualsiasi cosa pur di non adempiere ai ruoli assegnati dal suo
status di donna al servizio delle famiglie del
villaggio.
Una delle soprese di Cannes 76
Banel e Adama si affida quasi esclusivamente alla sua estetica così precisa e alla performance dell’attrice protagonista, Khady Mane, luce dell’intera narrazione, del resto lineare e anche programmatica. Molto complessa e decisamente femminista, l’evoluzione della sua Banel è davvero interessante: con il progredire della storia, diventa inquietante nel suo opporsi alle tradizioni e alle convenzioni della comunità. Le usuali tappe del viaggio dell’eroe – desiderio di fuga, seguito da una rinuncia e da un esito fatale – non permettono al film di elevarsi al di sopra della bellezza delle sue inquadrature. Perso nei suoi passaggi sublimi, quasi da cartolina, Banel e Adama dimentica di dare corpo alla sua storia e ai suoi personaggi, che sono la sua ragion d’essere.
Girato interamente in lingua fulani, Banel e Adama resta comunque una delle sorprese del Festival di Cannes 2023: anzitutto, in quanto unica opera prima presentata in concorso, ma anche per la capacità della regista di costruire un racconto tragico e sfruttare in maniera sapiente l’estetica dei paesaggi africani per raccontare il viaggio interiore dei suoi protagonisti. Certo, al film manca la profondità e la portata emotiva che gli avrebbero permesso di andare oltre la sua cornice ben definita, ma Banel e Adama non è affatto un film fallimentare.