Boris Malinovsky è un uomo realizzato, nella sua vita ha praticamente raggiunto ogni suo obiettivo, diventando ricco, potente, indipendente e – come summa di queste tre caratteristiche – un tantino arrogante. L’arroganza però è spesso attraente, lo porta infatti a stringere una relazione con una collega sposata e con una giovane ragazza russa ospitata proprio a casa sua; peccato che quest’ultima sia l’infermiera badante della moglie Beatrice, una ministra del governo Canadese caduta in una profonda depressione. Passa tutte le sue giornate seduta su una sedia a guardare fuori dalla finestra, senza proferire parola con nessuno o restituire un gesto, una carezza. Denis Côté ci fa vivere sul grande schermo il percorso infernale della ricerca della redenzione, accanto ad un personaggio che in barba ad ogni legge morale ne combina di ogni; la moglie, verso cui nutre implicitamente ancora un grande amore, è costantemente tradita, sbeffeggiata, le sue amanti vengono regolarmente ignorate dopo poco tempo, la madre è affidata all’oblio in una casa di riposo e la figlia non ha nessuna possibilità dialogo. Fra Boris e quest’ultima vi è infatti un fossato pieno di acqua putrida e coccodrilli, e nessuno dei due ha la minima idea di come si possa abbassare il ponte levatoio; medesimo discorso per la madre, ignorata regolarmente.
Solo incontrando il
Diavolo in persona – o comunque una coscienza eterea e ambigua –
dal volto rude di Denis Lavant, Boris prova a
riordinare i tasselli del suo personale puzzle esistenziale,
riuscendoci anche in superficie. Ma una persona può davvero
cambiare dall’oggi al domani – o quasi – dopo un’intera vita di
mala condotta? Il regista canadese lascia ogni spiraglio aperto in
un finale dalle molteplici chiavi di lettura, una scelta del tutto
aspettata vista la confusione generale del progetto. Lungo la presa
di coscienza di Boris, un intenso James Hyndman,
abbiamo più volte a che fare con il surreale, fra fauni omosessuali
che declamano poemi ad alta voce, Primi Ministri dal volto di
Bruce LaBruce, il già citato Denis Lavant incline
a lunghi spiegoni al tavolo della colazione, in abiti
indiani per giunta. Ciò che manca è la messa a fuoco, metaforica
ovviamente; esattamente come il suo protagonista, Côté – anche
autore della sceneggiatura – pecca di arroganza e perde la giusta
direzione, aggrovigliando il racconto in tentacoli affatto definiti
e occasionalmente didascalici. Più una sfida per amanti delle
lingue, poiché i canadesi hanno il dono di cambiarne anche tre in
una semplice discussione (dal francese all’inglese, passando in
questo caso anche per il russo), che un film utile a passare 90
minuti senza pensieri. Al contrario questi sorgono in maniera
copiosa, senza risoluzione.