A otto anni da Poetry, migliore sceneggiatura a Cannes 63, Lee Chang-dong torna nel concorso del Festival di Cannes con Burning, adattamento di Murakami, in cui il regista riesce a restituire l’essenzialità dello scrittore, dilatando il racconto in un film dalla durata importante, un minutaggio che sembra però al servizio del racconto.
Il film, a metà tra thriller e storia d’amore, racconta di Jong-soo, un ragazzo che sogna di fare lo scrittore, me è spiantato e senza troppa voglia di fare. Il ritorno forzato nel villaggio dove è cresciuto, dove è costretto a prendersi cura della fattoria del padre, lo ricongiunge a Haemi, amica d’infanzia, poco prima che questa parta per il Kenya. Dal viaggio, la ragazza torna con Ben, un affascinante e ricco rampollo che introduce un elemento nuovo in questo rapporto appena cominciato.
Il film non si trasforma mai davvero in un triangolo amoroso ma si tinge di giallo quando Haemi scompare, senza lasciare traccia. O meglio, quando sembra che sia sparita, perché il film di Chang-dong si fonda proprio sul sospetto, anzi meglio, sul dubbio dell’esistenza. Unica cosa che sembra concreta, invece, è la differenza di classe, la separazione tra Ben e Jong-soo, dal loro stile di vita alla maniera opposta in cui trattano la ragazza che, indirettamente, li unisce.
La svolta thriller, la
sparizione della ragazza, è un momento fondamentale del film, che
ne modifica il corso ma che non ne monopolizza il senso,
costituendo narrativamente un nodo essenziale ma lasciando
proseguire il film nel flusso in cui il regista l’ha immerso: un
profondo senso di mistero per il mondo, in ogni suo aspetto.
E questo mistero, in Burning, teneramente rappresentato dal gatto di Haemi, che esiste (o forse no?) ma che non vediamo mai, è la rappresentazione, in definitiva, del mistero del mondo, almeno stando a quanto dichiara Lee Chang-dong, secondo il quale la vita e il mondo stesso ne sono intrisi.