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Dogman, recensione del film di Luc Besson #Venezia80

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Dogman, recensione del film di Luc Besson #Venezia80
Caleb Laundry Jones in Dogman

Dopo la straordinaria prova attoriale di Nitram (2021), per cui si è aggiudicato la Palma d’oro come miglior interpretazione maschile al Festival di Cannes 2021, l’eclettico Caleb Landry Jones si mette nuovamente nei panni di un personaggio complesso ed estremamente sfaccettato in Dogman di Luc Besson, presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia 2023. Cuore da eroe e mente da villain, il suo Douglas – soprannominato Doug, evidente richiamo fonetico al titolo e alla trama del film – è il vero punto di luce di un film soprendentemente valido, probabilmente l’opera del regista francese che meglio riuscirà a imporsi come mainstream.

Dogman: la storia di Douglas, da God a Dog

Dogman racconta la storia di Douglas, auto-soprannominatosi Doug: è una sorta di origin-story molto equillibrata nel suo arco. Dall’infanzia passata letteralmente chiuso in una gabbia, vittima di figure maschili dispotiche nella casa, arrivando al presente narrativo in cui Doug si trova in prigione e viene interrogato da una psichiatra, Besson ci accompagna alla scoperta di un personaggio molto sfaccettato, che “ruba” da tanti villain o anti-eroi moderni, fra cui il Joker di Heath Ledger e l’Elijah Price di Samuel L. Jackson, quanto da icone drag e dive del cinema passato. Una figura fluida nell’animo e nei modi, nonostante i gravi problemi fisici, apparentemente imprendibile, almeno fino a quando non avrà come interlocutrice un’altra persona che conosce il dolore e che varrà la pena proteggere.

Douglas ha passato una vita a psicoanalizzarsi, dunque, non sorprende che il suo dialogo con la psichiatra sia più da intendere come un racconto che una confessione. Il racconto di una vita su cui hanno gravato le disattenzioni altrui, la scarsa considerazione, l’incapacità di relazionarsi con altri esseri umani. Besson mette in chiaro fin da subito le condizioni in cui vive Douglas, mischiando senza soluzione di continuità l’asprezza e la decadenza del pertugio attiguo al canile dove abita e, contemporaneamente, non dimenticandosi mai di far risaltare dei dettagli di arredamento significativi per Doug: il letto a baldacchino, la sua postazione make-up, i libri di cucine. Non a caso, dirà che le prime cose che ha imparato dalla vita gli sono state insegnate dalle riviste americane per il pubblico femminile.

Dogman (2023)

Un giorno questo dolore ti sarà utile

Il vivere chiuso in una gabbia, tra la sporcizia animale, la melma e le sbarre che precludono un mondo, ha forgiato l’intera esistenza di Doug, il suo modus operandi come artista dell’animalità umana. La famiglia canina di cui si è circondato, che tanto dà e nulla toglie, funziona come un’estensione del protagonista. Lavorando in maniera serrata sul ritmo, sul montaggio e sulla scrittura, Luc Besson incanala la vitalità di Doug in ogni sequenza che coinvolge anche i suoi “figli“, quelli che si è scelto in epoca infantile anche per contrastare la violenza con cui il padre trattava queste creature. Tra Doug e i suoi cani vi è, inoltre, una terza figura: un Dio a cui Doug si affida, che ha sempre cercato, e da cui, come nel rapporto coi suoi cani, non ha mai preteso niente se non la sua volontà. In tanti modi – e anche in un fotogramma significativo – i lessemi God e Dog si fondono, a sottolineare la simbiosi tra forza ultraterrena e terrestre, carnale, che il film di Besson indaga.

Seppur derivativo nella scrittura, come abbiamo già sottolineato, Dogman è un’aggiunta spumeggiante al concorso ufficiale della Mostra del Cinema di Venezia 2023, l’operazione recente meglio prodotta di Luc Besson, dopo una serie di film ritenuti insuccessi. Caleb Landry Jones conferma la sua natura da performance mimetico e presta la sua energia a un regista che avevamo bisogno di vedere così a fuoco.